Perdita del rapporto parentale: ennesimo intervento della Corte di Cassazione (Cass. civ., sez. III,  30 agosto 2022, n. 25541).

Perdita del rapporto parentale. Il relativo danno non è in re ipsa, bensì presuntivo.

Ennesimo intervento della Suprema Corte in tema di morte del prossimo congiunto ribadisce che il danno da lesione del rapporto parentale è un danno c.d. presuntivo, non in re ipsa.

La vicenda, oggetto della decisione qui a commento, deriva da un caso di responsabilità medica e in particolare una richiesta di risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale promossa dai familiari di un soggetto deceduto a seguito di una visita presso il pronto soccorso in cui avrebbe ricevuto una errata diagnosi e inadeguato piano terapeutico.

Il Tribunale di Rimini e la Corte d’Appello di Bologna assolvevano l’imputato ritenendo, il primo, insussistente il fatto contestato, la seconda, assente il nesso causale tra la condotta omissiva, sia pure colposa, dell’imputato e la morte del paziente.

Nello specifico, il giudizio penale si concludeva in appello con l’assoluzione del Medico per carenza di nesso causale tra la condotta omissiva (comunque definita colposa) e la morte del paziente. Successivamente, la Suprema Corte, investita dei soli capi civili, annullava la decisione di Appello per illogicità della motivazione e rinviava in diversa composizione.

Dopo avere disposto l’espletamento di CTU Medico-legale, la Corte d’appello accoglieva la domanda risarcitoria dei congiunti del paziente a titolo di danno iure proprio per perdita del rapporto parentale.

Il Medico impugna la decisione in Cassazione muovendo quattro censure.

Per quanto qui di interesse, con la seconda censura il ricorrente sostiene che, diversamente da quanto sostenuto dalla Corte d’Appello, nel giudizio di rinvio andrebbero applicate le regole sulla casualità tipiche della fase penale esauritasi a seguito della pronuncia della Cassazione, in quanto “la causalità” non sarebbe una semplice regola probatoria, ma parte integrante del fatto storico.

Con il terzo motivo di ricorso il ricorrente sostiene che la Corte d’Appello sarebbe incorsa in una illogica ed insanabile contraddizione in quanto avrebbe contemporaneamente qualificato il giudizio in riassunzione come “nuovo ed autonomo” ai fini sostanziali, processuali e probatori, e al tempo stesso lo avrebbe qualificato come “mero proseguio del pregresso giudizio” ai fini del riconoscimento del danno morale e della individuazione della disciplina applicabile ratione temporis.

Denuncia inoltre che la CTU avrebbe ritenuto esistente il nesso causale tra condotta omissiva colposa e l’evento senza però indicare le operazioni potenzialmente salvifiche per evitare il decesso del paziente.  

Con il quarto motivo sostiene che la Corte d’Appello avrebbe errato nel riconoscere il diritto al risarcimento del danno da perdita del rapporto parentale per la sola esistenza del legame di parentela con il paziente. Osserva in particolare che, per consolidata giurisprudenza, detto danno, lungi dal poter essere considerato in re ipsa, richiede una puntuale allegazione.

La Suprema Corte richiama e ribadisce i principi affermati in tema di perdita del rapporto parentale:  

1) il diritto al risarcimento del danno è un diritto eterodeterminato, e quindi l’identificazione della domanda è conseguenza esclusiva dell’individuazione del relativo petitum e della relativa causa petendi come rappresentata dal danneggiato in sede di costituzione di parte civile;

2) i fatti costitutivi del diritto al risarcimento del danno prescindono dall’identificazione del fatto come reato e da ciò consegue la legittimità, in sede di giudizio davanti alla Corte d’Appello civile, di una eventuale diversa valutazione degli stessi;

3) quale conseguenza del rinvio al Giudice civile il fatto perde la sua originaria connessione con il reato per riacquistare i caratteri dell’illecito civile, seguendo i canoni probatori propri di tale processo;

4) il Giudice civile in sede di rinvio dovrà applicare, in tema di nesso causale, il canone probatorio civilistico del “più probabile che non” e non quello dell’alto grado di probabilità logica e di credenza razionale.

Ciò posto, il danno da perdita del rapporto parentale, secondo l’interpretazione costante della giurisprudenza di legittimità, è finalizzato a ristorare i familiari superstiti dal pregiudizio subito sotto il duplice profilo morale (in specie sofferenza psichica) e dinamico-relazionale, quale sconvolgimento di vita destinato ad accompagnare l’intera esistenza del soggetto.

Nel caso di morte di un prossimo congiunto, l’orientamento unanime di legittimità depone nel senso che l’esistenza stessa del rapporto di parentela faccia presumere, secondo l’id quod plerumque accidit, la sofferenza del familiare superstite, essendo tale conseguenza, per comune esperienza, connaturale all’essere umano.

Trattandosi di presunzione semplice, sarà sempre possibile per il convenuto dedurre e provare l’esistenza di circostanze concrete che dimostrano, viceversa, l’assenza di un legame affettivo tra vittima e superstite.

Per tale ragione è stata rigettata la censura secondo cui i Giudici d’appello avevano riconosciuto il danno in re ipsa.

Affermare che la presenza di un legame di parentela qualificato sia elemento idoneo a fondare la presunzione, secondo l’id quod plerumque accidit, dell’esistenza del danno in capo ai congiunti del defunto, è cosa ben distinta dal riconoscere a questi ultimi la risarcibilità del danno in re ipsa, per il solo fatto della sussistenza di un legame familiare.

Il ricorso viene integralmente rigettato.

Avv. Emanuela Foligno

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