Nessun risarcimento per una donna che chiedeva di essere risarcita per la perdita di visus asseritamente riconducibile all’inadeguato o ritardato trattamento ricevuto

Nell’ambito della responsabilità medico-sanitaria, chi agisce per ottenere il risarcimento del danno, ha l’onere di allegare la ricorrenza di un inadempimento astrattamente “qualificato”, dato dalla necessità di ricorrere, ad esempio, a un tempestivo esame diagnostico circa la improvvisa perdita di visus e a un’adeguata terapia in correlazione al tono oculare, tutti fattori tali da permettere di inferire, anche solo con argomenti presuntivi, in assenza di fattori causali alternativi “più probabili”, la derivazione degli esiti invalidanti dall’inadeguato o ritardato trattamento ricevuto; pertanto, una volta valutato il quadro di inadempimento e la sua idoneità causale, spetta ai convenuti l’onere di fornire una prova idonea a superare tale presunzione secondo il criterio generale di cui all’art. 2697 c.c., comma 2.

Lo ha chiarito la Cassazione con l’ordinanza n. 9949/2021 pronunciandosi sul ricorso di una donna contro la decisione dei giudici di merito di rigettare i profili di colpa medica dedotti dalla ricorrente in riferimento alla patologia agli occhi – neurite acuta con esiti invalidanti generati da un glaucoma (pregresso o sopravvenuto), valutati nella misura dell’85% – insorta durante il ricovero presso l’istituto di cura in cui era stata trasferita per ricevere un trattamento specialistico della meningoencefalite da cui era risultata affetta: i disturbi visivi che si erano manifestati nella fase di ricovero, collegati alla patologia riscontrata, una volta constatato che non si risolvevano tramite le terapie praticate, avevano richiesto visite specialistiche in loco da parte del personale dell’ospedale, anch’esso convenuto in giudizio per gli esiti pregiudizievoli degli interventi effettuati, collegati al mancato rilievo di un pregresso glaucoma o, comunque, alla adozione di terapie inidonee a prevenire un glaucoma di natura iatrogena che, in quel contesto temporale, aveva condotto la paziente pressoché alla cecità.

La Corte d’appello, nello specifico, aveva ritenuto non adeguatamente provato il nesso eziologico, anche per causa imputabile al comportamento della ricorrente che non si era sottoposta a ulteriori indagini neurologiche in sede di CTU.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte la ricorrente deduceva, tra gli altri motivi, che la Corte territoriale non avrebbe dichiarato la colpa dei sanitari, anche presunta, ed avrebbe omesso l’indagine sul nesso causale.

Gli Ermellini hanno ritenuto la censura inammissibile.

La sentenza impugnata, infatti, aveva ritenuto che non fosse stato adeguatamente provato il nesso causale tra la condotta medica, assumendo l’inidoneità della critica mossa alla sentenza di primo grado a inficiare il ragionamento logico-giuridico seguito dal Tribunale, in mancanza della riconducibilità della patologia agli occhi al comportamento negligente dei medici. All’uopo aveva dato rilievo al fatto, non giustificato, che la paziente non si era presentata alla visita neurologica, tant’è che il CTU aveva rinunciato all’incarico, né la ricorrente aveva prodotto la cartella clinica inerente al pregresso ricovero presso l’ospedale ove ha avuto inizio l’intera vicenda. Il giudice aveva quindi tenuto conto anche del dato statistico della complicanza (neurite), ricorrente nel 5% dei casi di meningoencefalite, e della multifattorialità della genesi della malattia, di cui non si era potuta verificare la causa con un margine di adeguata certezza scientifica.

Il Collegio distrettuale aveva richiamato il principio in base al quale “nei giudizi di risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza della più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata”. Nel caso in esame, effettivamente i CTU, nell’esaminare anche l’approccio diagnostico e terapeutico del disturbo visivo, avevano individuato delle disfunzioni, in particolare il ritardo del conseguire la consulenza oculistica e la mancanza del rilievo del tono oculare, correlata alla somministrazione della terapia cortisonica, eventualmente da associare a terapia antiglaucomatosa: nel concludere avevano, però, precisato che sarebbe stata necessaria una valutazione neurologica, invece, mancata, per stabilire la possibilità di una terapia antinfiammatoria più incisiva, idonea ad arginare il danno a carico dei nervi ottici, ed il rapporto tra l’insorgenza/manifestarsi/aggravarsi di una glaucoma e la mancata monitorizzazione della pressione endo-oculare” durante il ricovero, in relazione al trattamento cortisonico. La danneggiata non aveva consentito tali approfondimenti e, pertanto, l’appello andava rigettato.

Tale motivazione, lungi dal rivelarsi apparente, dimostrava di avere correttamente applicato i principi e le norme che vengono in questione in tema di responsabilità medica in ambito contrattuale, soprattutto con riferimento alla valutazione del nesso causale in presenza di fattori concausali alternativi idonei a determinare l’evento di danno.

Difatti, pur tenendo conto dell’accertata catena multifattoriale delle cause che possono avere condotto all’evento lesivo invalidante, il criterio di giudizio avrebbe dovuto collegarsi alla dimostrazione della presenza di fattori concausali ritenuti predominanti nella valutazione della genesi della malattia insorta come complicanza. “E invero, sul paziente che agisce per il risarcimento del danno grava l’onere di provare, dopo avere dedotto l’inadempimento in tesi rilevante, la relazione causale tra questo e il danno, valutata secondo un criterio di adeguatezza logico-temporale che intercorre tra la condotta medica in astratto non conforme alle regole dell’arte e l’evento lesivo, mentre spetta alla controparte (medico o struttura sanitaria) dimostrare l’esatto adempimento o il sopravvenire di un evento imprevedibile ed inevitabile secondo l’ordinaria diligenza, ex art. 1218 c.c. 

Nel campo della responsabilità medica – hanno specificato dal Palazzaccio – sussiste un duplice ciclo causale, l’uno relativo all’evento dannoso, a monte di ogni altra considerazione, l’altro relativo all’impossibilità di adempiere, a valle, ovvero il posterius della prima considerazione.

Il primo, quello relativo all’evento dannoso, deve essere provato dal creditore/danneggiato, mentre il secondo, relativo alla possibilità di adempiere, deve essere provato dal debitore/danneggiante. Il creditore, quindi, deve provare il nesso di causalità fra l’insorgenza (o l’aggravamento) della patologia e la condotta del sanitario (fatto costitutivo del diritto); il debitore, invece, solo ove il primo elemento di valutazione (nesso causale) risulti adeguatamente provato, deve provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile la prestazione (fatto estintivo del diritto).

Il ciclo causale relativo alla possibilità per il medico di adempiere, pertanto, rappresenta un posterius del ragionamento del giudice, chiamato a valutarne la correlata responsabilità giuridica, in quanto acquista rilievo solo nella seconda fase del giudizio, e quindi ove risulti dimostrato il nesso causale materiale fra evento dannoso e condotta del debitore, secondo il criterio di adeguatezza causale del “più probabile che non”. Così, una volta che il danneggiato abbia dimostrato che l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento medico) è causalmente riconducibile alla condotta dei sanitari, risultata non in linea con i canoni dell’ars medica, sorge per la struttura sanitaria l’onere di provare che l’inadempimento, fonte del pregiudizio lamentato dall’attore, è stato determinato da una causa a sé non imputabile, in quanto imprevedibile ed inevitabile, la quale ha reso impossibile l’esito favorevole della patologia riscontrata.

Conseguentemente, mentre la “causa incognita” resta a carico dell’attore relativamente all’evento dannoso, la possibilità di adempiere resta a carico del convenuto, ove il primo elemento sia stato adeguatamente provato. Se al termine dell’istruttoria resti incerta la causa dei danno (come accertato nel caso concreto), o dell’impossibilità di adempiere, le conseguenze sfavorevoli in termini di onere della prova gravano rispettivamente sull’attore o sul convenuto.

Va, pertanto, confermata la validità del principio secondo cui “ove sia dedotta una responsabilità contrattuale della struttura sanitaria per l’inesatto adempimento della prestazione sanitaria, è onere del danneggiato provare il nesso di causalità fra l’aggravamento della situazione patologica (o l’insorgenza di nuove patologie per effetto dell’intervento) e l’azione o l’omissione dei sanitari, mentre è onere della parte debitrice provare che una causa imprevedibile ed inevitabile ha reso impossibile l’esatta esecuzione della prestazione; l’onere per la struttura sanitaria di provare l’impossibilità sopravvenuta della prestazione per causa non imputabile sorge solo ove il danneggiato abbia provato il nesso di causalità fra la patologia e la condotta dei sanitari”

Nel caso specifico, è proprio l’elemento nel nesso causale che è mancato a livello probatorio, per tutti plurimi fattori descritti nella CTU e riportati in sentenza, riconducibili anche alla condotta processuale tenuta dalla ricorrente, che non aveva permesso di conseguire un accertamento di tale elemento sulla propria persona, né aveva prodotto documentazione idonea, essendo un elemento del giudizio che viene prima della valutazione della responsabilità giuridica riferibile al medico e/o alla struttura sanitaria.

La redazione giuridica

Sei vittima di errore medico o infezione ospedaliera? Hai subito un grave danno fisico o la perdita di un familiare? Clicca qui

Leggi anche:

Shock settico per sepsi multipla contratta durante il ricovero

- Annuncio pubblicitario -

LASCIA UN COMMENTO O RACCONTACI LA TUA STORIA

Per favore inserisci il tuo commento!
Per favore inserisci il tuo nome qui