Periodo di conservazione del posto di lavoro e licenziamento

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L’omessa comunicazione da parte del datore di lavoro della scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro (obbligo che scatta una volta trascorsi 400 giorni di malattia) non comporta la nullità del licenziamento ma la violazione dei principi di correttezza e buona fede.

Entrambi i Giudici di merito (Tribunale di Pescara e Corte abruzzese) hanno accertato la illegittimità del licenziamento intimato in data 22/6/2020 per superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro (comporto), e, ai sensi dell’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970, hanno dichiarato risolto il rapporto di lavoro e condannato la società datrice al pagamento di un risarcimento del danno pari a 7 mensilità dell’ultima retribuzione globale di fatto.

La vicenda

I Giudici di secondo grado, rilevato che il periodo di comporto (pari a 510 giorni) previsto dal CCNL Fise-Assoambiente era stato pacificamente superato, hanno ritenuto che l’omessa comunicazione, da parte del datore di lavoro, della imminente scadenza del periodo di conservazione del posto di lavoro (obbligo prescritto una volta trascorsi 400 giorni di malattia) richiesta dall’art. 46 del CCNL, non comportava la nullità del licenziamento. Si prospettava quindi la violazione dei principi di correttezza e buona fede, posto che le parti sociali non avevano previsto tale sanzione ed inoltre il lavoratore doveva ritenersi onerato del controllo e monitoraggio dei giorni di assenza computabili (in forza di una sorta di principio di “autoresponsabilità”).

Oltre a ciò, il lavoratore non ha allegato la patologia sofferta, con esclusione, quindi, di un profilo di discriminazione in danno a lavoratori affetti da malattie croniche, gravi, con lunghi periodi di convalescenza e/o prognosi infauste. In ogni caso, la domanda di nullità del licenziamento doveva ritenersi inammissibile in quanto tardivamente proposta solamente nelle conclusioni del ricorso in opposizione ex art. 1, comma 51, legge n. 92 del 2012 (e non nell’ambito della fase sommaria) e basata su autonomi fatti costitutivi.

Pertanto, la Corte territoriale ha confermato la pronuncia di primo grado che ha applicato il regime sanzionatorio dell’art. 18, comma 5, della legge n. 300 del 1970 a fronte della mancata specificazione, nella lettera di licenziamento, dei periodi di assenza per malattia computati ai fini del recesso.

Il ricorso in Cassazione

Il lavoratore pone alla Corte di Cassazione la questione se “l’adempimento dell’obbligo datoriale di avvisare il lavoratore della imminente scadenza del comporto costituisca un elemento costitutivo del potere di risoluzione del rapporto di lavoro e la mancanza determina l’illegittimità del licenziamento”.

Il superamento del periodo di conservazione del posto di lavoro (comporto) costituisce un’autonoma fattispecie di recesso, regolata dall’art. 2110, secondo comma, c.c. che conferisce all’imprenditore il diritto di recedere dal contratto di lavoro “a norma dell’art. 2118 c.c.” quando la malattia del lavoratore si sia protratta oltre il periodo stabilito dalla legge, dal contratto collettivo o dagli usi.

In assenza di qualsiasi obbligo previsto dalla contrattazione collettiva, il datore di lavoro non ha l’onere di avvertire preventivamente il lavoratore della imminente scadenza del periodo di comporto per malattia al fine di permettergli di esercitare eventualmente la facoltà di chiedere tempestivamente un periodo di aspettativa (come previsto dal contratto collettivo stesso). Difatti, in tali casi non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite c.d. esterno del comporto, e della durata complessiva delle malattie, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei principi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto, posto che tali principi operano come norme di relazione con funzione di fonti integrative del contratto.

Invece, il CCNL applicato in azienda prevede espressamente l’obbligo del datore di lavoro di preavvertire il lavoratore che il periodo di assenza (per malattia o infortunio) si sta approssimando all’arco temporale massimo previsto dalle parti sociali per la conservazione del rapporto di lavoro: in particolare, l’art. 46, lett. B) del CCNL Fise-Assoambiente del 5/6/2017 prevede che “Nei casi di assenza dal servizio per eventi morbosi, debitamente certificata, ii lavoratore non in prova, ha diritto alia conservazione del posto per un complessivo periodo di comporto di 510 giorni calendariali, comprensivo dei giorni di assenza per ricovero ospedaliero o day hospital”. Aggiunge, inoltre, che: “Al raggiungimento di almeno 400 giorni calendariali complessivi di comporto, l’azienda ne dà comunicazione ai dipendenti interessati in occasione della consegna/trasmissione della prima busta paga utile”.

La garanzia di conservazione del rapporto di lavoro

In questa ipotesi, dunque, il contratto collettivo arricchisce la garanzia di conservazione del rapporto di lavoro prevista dall’art. 2110 c.c. imponendo, oltre alla tolleranza di un determinato periodo di tempo (510 giorni), anche la comunicazione preventiva (da effettuarsi prima che decorra ancora un significativo lasso temporale, ossia 110 giorni) al lavoratore.

Quindi, nel caso in esame, il licenziamento è stato intimato in violazione dell’art. 2110 c.c. ed è illegittimo.

La Suprema Corte esprime il seguente principio di diritto:

In tema di licenziamento per superamento del comporto nel regime successivo all’entrata in vigore dell’art. 1, comma 42, della legge n. 92 del 2012, l’inadempimento dell’obbligo, previsto dal contratto collettivo, di comunicare al lavoratore l’imminente scadenza del periodo di comporto determina l’illegittimità del licenziamento e l’applicazione del regime sanzionatorio della tutela reintegratoria c.d. debole, secondo l’espressa previsione dei commi 7 e 4 del novellato art. 18 della legge n. 300 del 1970” (Cassazione Civile, sez. lav., 15/05/2024, n.13491).

Avv. Emanuela Foligno

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