Nessuna scusante per i danni patiti dalla paziente a causa dell’elevato dosaggio della radioterapia: a prescindere dalle conoscenze scientifiche il trattamento terapeutico deve sempre essere “proporzionato al risultato da perseguire in relazione alle condizioni concrete sulle quali si intende intervenire

La vicenda

Il Tribunale di Bari aveva rigettato la domanda di risarcimento proposta dagli attori contro la struttura sanitaria, per i danni (da mielopatia trasversa) subiti dalla propria congiunta già affetta da “linfogranuloma di Hodgking”, a causa delle eccessive dosi di irradiazione della terapia somministrata.

A sostegno della propria decisione il giudice pugliese aveva posto il fatto che al momento in cui la paziente fu sottoposta al trattamento terapeutico, la mielopatia trasversa non era annoverata tra le conoscenze scientifiche dei rischi connessi alla radioterapia.

La Corte d’Appello di Bari riformava la decisione, ritenendo accertata la responsabilità per inadempimento della prestazione sanitaria, poiché contrariamente a quanto dedotto dal primo giudice, il rischio di mielopatia dorsale, se pure raro, risultava segnalato dalla dottrina scientifica, e comunque i risultati postivi già conseguiti dalla paziente all’esito del precedente trattamento chemioterapico non giustificavano l’alto dosaggio di radiazioni somministratole. La corte territoriale condannava pertanto l’Ospedale al risarcimento del danno non patrimoniale in favore di entrambi i danneggiati, che liquidava sulla scorta delle tabelle milanesi.

I danni da elevato dosaggio della radioterapia e la nozione di “complicanza”

La Corte di Cassazione (Terza Sezione Civile, sentenza n. 28935/2019) al cui vaglio è stata rimessa la vicenda ha confermato la pronuncia della corte d’appello pugliese, ritenendo che la struttura sanitaria non fosse stata in grado di fornire la prova che “nella incertezza scientifica, la somministrazione di un elevato dosaggio – anziché di un dosaggio mantenuto al di sotto della incidenza riscontrata per le “complicanze” conosciute – rispondesse al canone della prudenza cui è tenuto l’operatore sanitario”. In altre parole, le considerazioni svolte dalla struttura oncologica, in ordine alla mancanza di indicazioni certe nelle fonti scientifiche circa la corretta proporzione tra dosaggio e risultato conseguibile ai fini della “definitiva remissione di una patologia ad effetti mortali”, non facevano altro che rimarcare l’assenza di prova liberatoria di cui all’art. 1218 c.c.

Al riguardo, gli Ermellini hanno riaffermato il principio secondo cui “nel giudizio di responsabilità medica, per superare la presunzione di cui all’art. 1218 c.c. non è sufficiente dimostrare che l’evento dannoso per il paziente costituisca una “complicanza” rilevabile nella statistica sanitaria, dovendosi ritenere tale nozione (indicata nella letteratura medica quale evento, insorto nel corso dell’iter terapeutico, astrattamente prevedibile ma non evitabile) priva di rilievo sul piano giuridico, nel cui ambito il peggioramento delle condizioni del paziente può solo ricondursi ad un fatto o prevedibile ed evitabile, e dunque ascrivibile a colpa del medico, ovvero non prevedibile o non evitabile, sì da integrare gli estremi della causa non imputabile” (Cass. n. 13328/2015).

La pronuncia della Cassazione

Nella specie, la corte di merito aveva ritenuto per un verso che la complicanza di “mielopatia dorsale”, se pur rara, fosse stata rilevata dagli studi scientifici; per altro verso, tenuto conto dei rischi conosciuti derivanti dall’alta somministrazione di terapia radiante, aveva ritenuto comunque ininfluente la conoscenza della effettiva rilevanza statistica della predetta complicanza, atteso che l’avere sottoposto la paziente senza una plausibile giustificazione – fornita dal suo stato di salute all’esito della chemioterapia – ad un trattamento che comunque acuiva il rischio di gravi effetti collaterali (in questo caso conosciuti: “polmonite, cardite, ipertiroidismo, alterazioni ossee, sterilità, ipoplasia, midollare, leucemia acuta non linfoide) integrava già di per sé la violazione della regola di prudenza che impone la somministrazione di un trattamento terapeutico proporzionato al risultato da perseguire in relazione alle condizioni concrete sulle quali si intende intervenire.

All’accertamento in concreto della colpa generica e della non assoluta imprevedibilità della indicata complicanza (in quanto rischio possibile se pure non probabile) si era aggiunta l’assenza della prova liberatoria della responsabilità professionale. Per tali motivi la sentenza impugnata è stata confermata.

La redazione giuridica

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