Appropriarsi di un bene della persona offesa, al fine di indurla a riavviare la convivenza more uxorio interrotta, integra un’utilità morale qualificabile come ingiusto profitto, elemento costitutivo del reato di rapina
La vicenda
La Corte di appello di Firenze, accogliendo l’appello proposto dal pubblico ministero e dalla parte civile, aveva condannato l’imputato alla pena ritenuta di giustizia, in ordine ai reati di rapina, lesioni personali e violazione di domicilio, oltre al risarcimento del danno in favore della parte civile.
In primo grado, il Tribunale aveva assolto l’imputato dal delitto di rapina per la pretesa carenza dell’elemento soggettivo, sul presupposto che la relazione sentimentale con la persona offesa lo avesse indotto ad appropriarsi con violenza della sua borsa, dopo avere fatto irruzione nel suo domicilio ed averla picchiata brutalmente, dunque non per trarne un ingiusto profitto, ma solo al fine di indurla a riprendere la convivenza ormai cessata.
Ebbene, tale assunto non è risultato condivisibile; come pure non ha trovato accoglimento l’assunto addotto dalla difesa secondo cui l’esistenza del rapporto sentimentale tra le parti, quale interesse giuridico tutelato dall’ordinamento (ai sensi dell’art. 2 Cost.), avrebbe scriminato la condotta dell’imputato ed escluso l’ingiusto profitto, che costituisce elemento necessario del reato di rapina; avendo egli agito, al solo fine di tentare la ricomposizione della cessata relazione affettiva more uxorio.
La nozione di ingiusto profitto nel reato di rapina
La Corte di Cassazione (Seconda Sezione Penale, sentenza n. 23177/2019) ha, infatti, ribadito il principio secondo il quale l’ingiusto profitto nei reati contro il patrimonio non necessariamente deve essere diretto a conseguire un’utilità materiale, ma può mirare anche soltanto ad un vantaggio morale o sentimentale, e nel caso in esame appropriarsi di un bene della persona offesa, al fine di indurla a riavviare la convivenza more uxorio interrotta, integra un’utilità morale qualificabile come ingiusto profitto, poichè nessuna norma riconosce il diritto a proseguire una convivenza di fatto, senza il libero consenso dell’altra persona.
Per tutte queste ragioni il ricorso è stato dichiarato inammissibile con conseguente condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La redazione giuridica
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