Respinta la malattia professionale perché nel giudizio di secondo grado viene quantificata nella misura del 5%, non sufficiente per la tutela assicurativa.

Respinta la malattia professionale perché inferiore al limite stabilito per la tutela assicurativa dell’Inail (Cassazione civile, sez. VI, 09/05/2022, n.14648), laddove invece in primo grado veniva quantificata nel 30%.

La Corte d’Appello di Napoli ha accolto l’appello dell’INAIL e, in riforma pronuncia di primo grado, ha respinto la malattia professionale proposta dal lavoratore, volta al riconoscimento della rendita o dell’indennizzo per la menomazione dell’integrità psicofisica.

La Corte territoriale, disposta una nuova C.T.U. e in base all’esito della stessa, ha quantificato nella misura del 5% la menomazione dell’integrità psicofisica del lavoratore, escludendo il diritto alla tutela assicurativa.

I Giudici di appello hanno condiviso le conclusioni del C.T.U. secondo cui il ricorrente, “esposto a rischio amianto nel corso della sua attività lavorativa ha sviluppato, come si evince da esami strumentali e visite specialistiche in atti, una malattia professionale come “asbestosi”; la patologia polmonare, così come documentato dalla certificazione sanitaria specialistica compresa quella strumentale e come emerso dall’esame obiettivo, presenta caratteri propri dell’asbestosi in assenza attuale di deficit respiratorio”.

Il lavoratore ricorre in Cassazione deducendo omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio, costituito dalla CTU disposta in primo grado che aveva accertato la sussistenza di un danno biologico permanente nella misura del 30%. Si sostiene che la Corte di merito abbia omesso di motivare le ragioni del dissenso rispetto alle conclusioni del C.T.U. nominato in primo grado.

Le censure si fondano sul mancato esame da parte dei Giudici di appello della CTU svolta in primo grado e sulla mancata motivazione in ordine alle ragioni per cui siano state disattese le conclusioni del primo C.T.U., senza che la parte ricorrente si sia premurata di specificare le ragioni per cui la C.T.U. svolta in appello, che vedeva respinta la malattia professionale, sarebbe errata e contraria ai criteri della scienza medica, e senza peraltro che fossero trascritte, almeno nelle parti rilevanti, le Consulenze d’ufficio.

Qualora il Giudice del merito si sia basato sulle conclusioni del CTU, ai fini della deduzione in cassazione del vizio in esame è necessario che eventuali errori e lacune della Consulenza, che si riverberano sulla sentenza, si sostanzino in carenze o deficienze diagnostiche, o in affermazioni illogiche o scientificamente errate, non già in semplici difformità tra la valutazione del Consulente circa l’entità e l’incidenza del dato patologico e il valore diverso allo stesso attribuito dalla parte.

Per tali ragioni è da rigettare il ricorso avverso la sentenza che, condividendo la relazione del C.T.U., abbia escluso la derivazione causale dell’infortunio dall’attività di lavoro, quando il ricorrente si limiti ad invocare una diversa valutazione scientifica delle prove raccolte rispetto alla sentenza che abbia prestato adesione alle conclusioni del CTU.

Ciò che è censurabile in Cassazione è la palese devianza dalle nozioni correnti della scienza medica, la cui fonte va indicata, oppure l’omissione degli accertamenti strumentali dai quali, secondo le predette nozioni, non può prescindersi per la formulazione di una corretta diagnosi, mentre al di fuori di tale ambito la censura costituisce mero dissenso diagnostico che si traduce in un’inammissibile critica del convincimento del Giudice, come tale inammissibile.

La decisione impugnata non presente questi difetti ed ha recepito, motivando congruamente, le conclusioni della C.T.U. svolta in secondo grado, disattendendo la diversa valutazione operata dal primo Consulente.

Conseguentemente, il ricorso è inammissibile.

La redazione giuridica

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