Messaggi e continue intromissioni per mantenere i contatti con l’ex partner costituiscono molestie che configurano condotta petulante (Cass. pen., sez I, dep. 27 ottobre 2023, n. 43642).
I Giudici penali hanno dato rilevanza alla condotta della donna, all’insistente intromissione da parte sua nella sfera privata dell’ex partner a nulla rilevando che ciò fosse conseguenza della sofferenza per l’interruzione della relazione sentimentale.
La donna è stata condannata per molestie per avere scritto insistentemente all’ex partner anche minacciando gesti autolesionistici per l’interruzione della relazione sentimentale.
La tesi dell’accusa
Nello specifico, l’uomo ha prodotto la mole di messaggi – di posta elettronica e WhatsApp – che la imputata gli inviava per manifestargli la propria disperazione per la fine della loro relazione e per esprimere la necessità di avere un contatto continuo con lui. Invece, la tesi difensiva della donna sostiene che non si tratti di molestie, bensì della incapacità dell’imputata di rielaborare emotivamente il dolore derivante dalla fine della relazione. Inoltre sostiene che il comportamento contestato non può essere definito petulanza in quanto la persona offesa rispondeva sempre ai messaggi.
Il Tribunale di Piacenza, all’esito di giudizio abbreviato, ha ritenuto la donna colpevole della contravvenzione di cui all’art. 660 c.p., così riqualificato il reato di cui all’art. 612-bis c.p. originariamente contestato, condannandola alla pena dell’ammenda nella misura di €250,00.
La donna impugna la sentenza di primo grado in Appello
Avverso tale sentenza, l’imputata ha proposto impugnazione avanti alla Corte d’Appello di Bologna, deducendo la nullità della sentenza per contraddittorietà della motivazione, dal momento che il Tribunale, pur avendo affermato di condividere le conclusioni del consulente della difesa, il quale aveva espresso dubbi sulla autenticità del contenuto di copie cartacee degli screen shot di WhatsApp e delle e-mail, ha poi fondato il giudizio di responsabilità soltanto su tali elementi.
Nel merito, la difesa, come già detto, contesta la sussistenza del reato di cui all’art. 660 c.p., non potendo rinvenirsi la genesi della condotta dell’imputata in biasimevoli motivi quanto, piuttosto, nei gravi problemi psicologici della stessa e nella sua incapacità di rielaborare emotivamente il dolore derivante dalla fine della relazione sentimentale.
La Corte d’Appello di Bologna, rilevato che la donna era stata condannata alla sola pena dell’ammenda, dichiarava inappellabile la sentenza del Tribunale di Piacenza e disponeva la trasmissione degli atti alla Cassazione.
Il giudizio della Cassazione
Per i Giudici di Cassazione è palese la responsabilità penale dell’imputata. Innanzitutto, viene evidenziato che “il reato di molestia non è necessariamente abituale, potendo essere realizzato anche con una sola azione di disturbo o di molestia, purché ispirata da biasimevole motivo o avente il carattere della petulanza” ma, viene aggiunto, “tale reato è generalmente caratterizzato dalla reiterazione dei comportamenti, sicché, in tale evenienza, deve ritenersi esclusa l’applicazione della causa di non punibilità”.
Ed ancora, è evidente che la donna abbia agito “per biasimevoli motivi e per petulanza vista l’insistente intromissione nella sfera privata dell’ex compagno“, a nulla rilevando che “ciò fosse conseguenza della sofferenza della donna per l’interruzione della relazione sentimentale”.
Avv. Emanuela Foligno