Prima con procedimento di ATP e poi dinanzi al Tribunale di Lecce, veniva accertata la responsabilità dell’Azienda Ospedaliera per la morte del paziente deceduto per una perforazione intestinale evolutasi in sepsi.
I fatti
Il paziente era in cura presso un’altra struttura in conseguenza di un carcinoma uroteliale papillare, con trattamenti iniziati nel marzo 2014 e che hanno condotto al referto del 22/04/2015, in cui si attesta l'”assenza di neoformazioni”. Per questo fu poi sottoposto alle cure del personale della Struttura convenuta a partire dal luglio 2015 in relazione a una nuova problematica, rappresentata da perforazione intestinale evolutasi in sepsi non arginabile che determinava il decesso del paziente in data 2/12/2015. La patologia colica del paziente non fu trattata chirurgicamente ed anzi seguivano le dimissioni in data 10/11/2015. Quando, in data 21/11/2015, si presentavano i segni clinici della perforazione intestinale con peritonismo, l’intervento chirurgico risultava inefficace e si rendeva necessario un secondo intervento chirurgico effettuato il 24/11/2015.
Secondo le conclusioni della CTU, un intervento chirurgico tempestivo, da effettuarsi il 10/11/2015 in luogo delle disposte dimissioni, avrebbe condotto non già al decesso, bensì a una patologia reversibile o irreversibile cronica.
Secondo i CTU del primo grado, quindi, il trattamento sanitario fornito durante i numerosi ricoveri presentava evidenti profili di responsabilità professionale medica inquadrabili nell’imprudenza e imperizia per quanto concerneva il trattamento della perforazione intestinale, che pure fu correttamente diagnosticata, e “la mancanza di monitoraggio e la scelta di non trattare la patologia intestinale costituì l’evento scatenante della cascata fenomenologica che determinava prima il quadro peritonitico, e successivamente la sepsi che condusse a morte la paziente in data 02/12/2015”.
E ancora il Tribunale precisava che l’individuazione della causa del decesso del 02/12/2015 nell’erroneo trattamento della perforazione intestinale e escludeva ogni dubbio relativo alla “perdita di chance di sopravvivenza a cinque anni con probabilità del 93.4%” che, calcolata dai CC.TT.UU in funzione del carcinoma riscontrato nel 2014, non si atteggiava sul piano giuridico come danno causato dalla condotta dei sanitari – essendo stato individuato il danno nel decesso per l’erroneo trattamento del quadro peritonitico –, bensì costituiva elemento utile ai fini della quantificazione del danno patito dai ricorrenti.
Negato il danno catastrofale e il danno biologico terminale poiché non ascrivibili alla condotta dei sanitari.
La Struttura impugna la decisione in appello e, tra le altre, si duole che il primo giudice abbia disatteso la sollevata eccezione anche in ordine alle pretese risarcitorie erroneamente invocate iure proprio atteso che il danno subito si concreta in una perdita di chance di sopravvivenza rispetto alla quale non sussiste legittimazione ad azione risarcitoria autonoma. Errata liquidazione del danno terminale
I congiunti del paziente propongono appello incidentale evidenziando erronea liquidazione del danno secondo il sistema tabellare del Tribunale di Milano in luogo di quello di Roma.
L’appello principale è fondato.
La legimatio ad causam
La legitimatio ad causam, intesa come la titolarità del rapporto giuridico, deve essere verificata rispetto alla fattispecie giuridica prospettata con l’azione e prescinde dall’effettiva titolarità del rapporto giuridico dedotto in causa. La giurisprudenza afferma infatti che la legitimatio ad causam, attiva e/o passiva, consiste nella titolarità del potere e del dovere di promuovere o subire un giudizio in ordine al rapporto sostanziale dedotto in causa, mediante la deduzione di fatti in astratto idonei a fondare il diritto azionato, secondo la prospettazione dell’attore, prescindendo dall’effettiva titolarità del rapporto dedotto in causa.
Ciò posto, i nipoti hanno agito soltanto per il risarcimento del danno iure proprio sofferto a seguito del decesso della nonna per la perdita del rapporto parentale. Nei confronti di questi ultimi, quindi, la legittimazione ad causam va verificata con riferimento a tale domanda, sicché è sufficiente, ai fini della legittimazione all’azione, solo la prova, fornita con la certificazione prodotta in atti, del rapporto di parentale con la defunta, senza che occorra alcuna accettazione di eredità, né tacita né esplicita, né alcun atto notorio che attesti il rapporto di parentela in sostituzione e/o in aggiunta della certificazione anagrafica.
I due figli del paziente, invece, hanno agito oltre per i danni subiti iure proprio, anche – iure hereditatis – per il risarcimento del danno subito dal paziente a seguito del decesso, occorso in conseguenza di un deficit terapeutico. Tale domanda risarcitoria necessita della prova della qualità di eredi della de cuius in capo agli attori.
Sulla qualificazione della domanda come domanda di risarcimento di un danno derivante da perdita di chance di sopravvivenza, piuttosto che come domanda di risarcimento di danno per perdita del rapporto parentale per una morte anticipata. Il primo Giudice, secondo la tesi dell’appellante, non avrebbe correttamente interpretato le conclusioni della CTU laddove viene indicato che il paziente, senza la condotta negligente della struttura sanitaria, avrebbe avuto, con una probabilità del 93,4%, e nonostante la patologia tumorale alla vescica, una sopravvivenza di 5 anni, sicché il decesso occorso prima di tale arco temporale non sarebbe un danno-conseguenza risarcibile, ma un danno-evento, tale da escludere ogni pretesa risarcitoria reclamata dai congiunti iure proprio. Ergo l’evento morte, andava considerato solo come una perdita della mera possibilità di sopravvivenza.
La condotta dei medici ha causato la morte del paziente
Il Tribunale, focalizzando la disamina della questione sulla patologia colica, e in allineamento con la CTU, afferma che la condotta dei medici abbia causato la morte della paziente. Ciò posto, sarebbe errato sovrapporre i due piani, e quindi, laddove i Consulenti parlano di una perdita di chance di sopravvivenza quantificabili nel 93,4% a 5 anni con riferimento alle condizioni della paziente all’esito del trattamento e della guarigione dalla patologia vescicale, per carcinoma, non si può intendere sic ed simpliciter che parlino solo di un danno da perdita di chances di sopravvivenza, perché si è in presenza, invece, della diversa ipotesi di una perdita anticipata del bene vita, con conseguente perdita anticipata del rapporto parentale.
Tale soluzione viene ritenuta corretta.
Il paziente, all’esito della guarigione dal carcinoma uroteliale papillare, aveva, alla data del referto del 22.4.2015 – cioè otto mesi prima del decesso – la elevata probabilità di sopravvive per 5 anni. Il dato del 93,4% indica una elevatissima probabilità di sopravvivenza (di appena 6,6% inferiore al 100% ), sicché vi era quasi certezza di sopravvivere per altri 5 anni. L’errato trattamento sanitario ha cagionato la morte anticipata della paziente, ergo non può discorrersi della “perdita di chance di sopravvivenza”, bensì in quella di un evento di danno rappresentato, in via diretta ed immediata, dalla minore durata della vita.
In ogni caso, sulla base di un ragionamento controfattuale, la morte, ove il trattamento della patologia colica fosse stato adeguato ed immune da censure, sarebbe sopraggiunta, con elevata probabilità, non prima dei successivi 5 anni. La probabilità del 93,4% di sopravvivenza, indicata dai CTU, semmai può incidere sulla entità del danno risarcibile, ma non trasforma il danno da perdita del rapporto parentale in un danno da perdita di chance.
Il danno da perdita di chance ormai è del tutto pacifico, corrisponde alla privazione della possibilità di un miglior risultato sperato.
In altri termini, è accertato che il paziente, qualora fosse stata trattata correttamente la perforazione intestinale, avrebbe certamente avuto la possibilità di guarigione anche da tale patologia, e di sopravvivenza per almeno 5 anni, con elevatissima probabilità – pari al 93,4% – nonostante la patologia tumorale vescicale.
Alla luce di tali considerazioni, la sentenza di primo grado merita di essere confermata sul punto.
La quantificazione del danno
Fondato è invece la censura inerente la quantificazione del danno, sia per ciò che attiene alla entità del danno liquidato iure hereditaris, che con riferimento alla entità del danno liquidato ai congiunti “iure proprio”. La Struttura censura la entità del danno terminale liquidato iure hereditatis, in €50.000 laddove tale importo sarebbe a suo dire frutto di un conteggio errato. La appellante ne evidenzia l’erroneità sia per ciò che attiene al riconoscimento della personalizzazione di tale danno, operata dal tribunale, pur in difetto di prova di circostanze che ne giustificavano il riconoscimento, sia perché tale personalizzazione è stata conteggiata in modo errato, includendo anche per i primi tre giorni.
Il primo Giudice ha riconosciuto un incremento dell’importo di €38.662,00 per la personalizzazione, giustificato con riferimento sia alla peculiare situazione, che alla particolare penosità dell’aggravamento della patologia, occorsa in un soggetto che aveva subito già vari interventi.
Tuttavia, la personalizzazione può essere riconosciuta solo a partire dal quarto giorno e non deve superare il limite del 50%. Pertanto, riverificati i conteggi, l’importo spettante sulla base delle tabelle di Milano è dunque pari ad €42.993 pari ad €30.000 per i primi tre gg + €8662 per i gg dal 4° al 12° + €4331 ( pari al 50% di 8662) per la personalizzazione.
Parimenti accolta, inoltre, la censura inerente la quantificazione e liquidazione del danno parentale liquidato ai figli ed ai nipoti, perché eccessiva.
Avv. Emanuela Foligno
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