Alla lavoratrice affetta da sindrome di tunnel carpale con dita a scatto non viene riconosciuta la derivazione professionale della patologia (Tribunale di Modena, Sez. Lavoro, Sentenza n. 103/2021 del 26 febbraio 2021 RG n. 1723/2016)

Con ricorso ex art. 414 c.p.c. la lavoratrice deduce che:

– lavorava come addetta al reparto smalteria, dal 13.02.1995;

– l’attività lavorativa consisteva nel miscelare e smistare i colori; in particolare: mescolare, con una pala di ferro, lo smalto contenuto in un grosso contenitore (cd. “mastellone”); travasare lo smalto con una caraffa del peso di tre Kg.; spruzzare con apposite pompe lo smalto sulle piastrelle; provvedere al lavaggio di pavimenti, caraffe e bidoni con una “lancia a spruzzo”; prelevare il materiale di scarto (piastrelle) ” con una pala metallica per gettarlo dentro un grossa benna lanciandolo all’altezza di un metro e quaranta centimetri circa (tanto era alta la benna) “;

– l’ambiente lavorativo era particolarmente umido per la presenza di smalti, acqua e vapore;

– gli strumenti di lavoro utilizzati (pompa, lancia a spruzzo, pala metallica) erano pesanti e producevano forti vibrazioni agli arti;

– le mansioni svolte comportavano “il movimento continuo e ripetitivo degli arti superiori e delle dita, con particolare riferimento quello destro, nonché di tenere le mani quasi sempre a bagno -sebbene con l’uso dei guanti – e l’uso di attrezzi e utensili dal peso considerevole”;

– a causa del movimento ripetitivo degli arti superiori, protrattosi per diversi anni, iniziava ad avvertire un dolore ai polsi, specie a quello destro, diagnosticato come “sindrome del tunnel carpale”, ed inoltre sviluppava un disturbo alla mano destra, cd. “dita a scatto”;

– in data 17.05.2016 presentava domanda amministrativa all’Inail finalizzata ad ottenere il riconoscimento della malattia professionale;

– il 24.06.2016 si sottoponeva ad intervento chirurgico di apertura del tunnel carpale e all’arto dx e terzo dito “a scatto”;

– con provvedimento del 05.07.2016, l’Inail rigettava la richiesta di malattia professionale deducendo che si trattava di comune patologia e tale diniego veniva confermato in sede di opposizione ex art. 104, DPR n. 1124/1965.

Si costituisce in giudizio l’Inail eccependo l’improcedibilità del ricorso ex art. 443 c.p.c. e l’infondatezza in fatto e in diritto della domanda attorea.

La causa viene istruita con prove testimoniali e CTU Medico-Legale.

Preliminarmente il Tribunale da atto che l’Inail non ha contestato le circostanze dedotte nel ricorso introduttivo dalla lavoratrice; e quindi devono ritenersi pacifiche le mansioni lavorative della ricorrente, confermate peraltro anche dai testimoni escussi.

La CTU ha confermato che “la ricorrente è affetta da una sindrome di tunnel carpale, insorta nel 2015 e risolta chirurgicamente nell’anno 2016, con intervento di decompressione del nervo mediano destro e di terzo dito a scatto (dx)”.

Trattandosi di malattia tabellata (voce n. 78.L – D.M. 09.04.2008 2), spetta all’Istituto dimostrare che la malattia non sia stata causata dall’attività lavorativa.

Come noto, l’inclusione della malattia fra quelle per le quali l’origine professionale è “di elevata probabilità” determina una presunzione legale in ordine al rapporto causale o concausale.

Ne consegue che l’Inail deve provare l’inesistenza del nesso eziologico, la quale può consistere nella dimostrazione che la malattia sia stata causata da un diverso fattore patogeno.

Il C.T.U., esaminando la documentazione medica e il quadro clinico della perizianda, ha escluso la sussistenza di una correlazione causale tra la sindrome di tunnel carpale al polso destro e l’attività lavorativa svolta.

Si legge, nello specifico, nell’elaborato: ” la signora è affetta da postumi di intervento al polso destro (giugno 2016) per risolvere una sindrome del tunnel carpale. Tale patologia non è oggettivamente riconducibile all’attività svolta dalla ricorrente perché non risultano soddisfatti i criteri modale, quantitativo, qualitativo, temporale. La stessa attività lavorativa non ha aggravato alcuna patologia pregressa perché, a parte la considerazione che l’esordio della patologia de quo è stata acuto, non sussistono in atti elementi documentali di patologie precedenti a questa…(..).. Sussiste un quadro complessivo di natura degenerativa cronica interessante differenti articolazioni degli arti superiori, come una delle espressioni cliniche su base organica di una patologia sistemica , prospettando quindi una diversa patogenesi…(..).. Il dato temporale (prima sintomatologia nel settembre 2015, come riferito dalla ricorrente e le modalità di espletamento delle mansioni, con un impegno degli arti superiori diversificato e variabile sia temporalmente che sotto il profilo ergonomico, portano ad escludere l’origine professionale della malattia denunciata”.

Il C.T.U. sulle osservazioni del C.T.P. ha chiarito: “Le modalità di espletamento delle mansioni della lavoratrice sono risultate ampiamente diversificate, configurandosi in attività che spaziano da un continuo controllo visivo della normalità dei processi serigrafici (quindi senza alcun impegno degli arti superiori) al rabbocco del liquido utilizzato con caraffe di 3 -5 litri nell’arco di 2 -3 ore, al sollevamento di sacchi (divisi a metà) di graniglia di 25 kg (quindi con uno sforzo assai modesto delle mani, dei polsi e dei gomiti vista la frequenza di tali movimentazioni, come dichiarato dalla stessa), al controllo manuale degli eventuali difetti nelle piastrelle lavorate, ed altro ancora. Le stesse schede di valutazione dei rischi depongono in modo estremamente particolareggiato per mansioni caratterizzate dalle più svariate applicazioni svolte in un arco temporale di sette ore. L’impegno degli arti superiori risulta pertanto diversificato sia temporalmente che sotto il profilo ergonomico (si pensi a mero titolo di esempio al peso di una piastrella) interessando entrambi gli arti ma con modalità quali e quantitative assai differenti. Intendo a questo proposito ribadire in concetto che gli intervalli tra una attività e l’altra possono essere di varia grandezza non sussistendo di fatto una costanza e una continuità dell’applicazione lavorativa, frammentandosi questa in varie realizzazioni più o meno gravose, e quindi con sollecitazioni dei polsi e delle mani molto variegate quantitativamente, qualitativamente e in termini di impegno temporale (spesso pochi minuti). Non ritengo infine di condividere il giudizio negativo espresso dal collega sulla pregnanza del DVR in quanto trattasi di un documento previsto dalle normative e come tale, in un contesto di valutazione dei vari criteri riferiti ad una esposizione a rischio, non può, ed anzi, deve essere preso in giusta considerazione”……”Quanto infine alla contestazione della “comune patologia” riferita alla patologia denunciata dalla ricorrente lo scrivente non ha inteso certo attribuirla né alla menopausa, né, tanto meno, ad una non meglio specificata artrosi, ma ha voluto molto semplicemente attestare un dato di fatto epidemiologico e clinico inconfutabile (scientifico e de visu) che attribuisce alle donne in età menopausale una maggiore probabilità di esserne affetta senza per questo definirne, nel caso de quo, una dignità causale .”

Ciò posto, il Tribunale condivide la CTU e la fa propria, rigettando la richiesta di riconoscimento dell’origine professionale della patologia denunciata dalla lavoratrice.

La particolarità della vicenda esaminata e le incertezze in ordine alla genesi professionale o extraprofessionale di una malattia tabellata, come quella in esame, impongono al Tribunale l’integrale compensazione delle spese di lite.

Per le medesime ragioni le spese della C.T.U. vengono poste a carico delle parti nella misura del 50% ciascuna.

Avv. Emanuela Foligno

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