Sindrome pronatoria del piede sinistro e intervento per osteotomia del calcagno (Cassazione civile, sez. III,  dep. 20/05/2022, n.16404).

Sindrome pronatoria del piede sinistro e interventi chirurgici ortopedici eseguiti in assenza di una corretta informazione sulle complicanze.

La paziente ricorre per la cassazione della sentenza della Corte di Appello di Milano, che – rigettandone il gravame avverso la decisione del Tribunale di Milano – ha confermato la reiezione della domanda risarcitoria dalla stessa proposta nei confronti dell’Istituto Ortopedico e del Medico, in relazione a due episodi di malpractice sanitaria di cui assume essere stata vittima.

Riferisce, di essersi sottoposta ad un intervento chirurgico a seguito della diagnosi di sindrome pronatoria del piede sinistro.  L’intervento veniva indicato come necessario per la eliminazione di algie nella zona astragalo-calcaneare mediale del piede e dava esiti gravemente negativi e invalidanti del tutto inattesi dalla paziente.

Alla paziente venivano indicate, quali possibili complicanze dell’intervento, solo il mancato consolidamento della osteotomia del calcagno, l’incompleta scomparsa della sintomatologia dolorosa, e una possibile sepsi, ma non pure l’aggravamento della propria condizione.

La paziente, invece, lamentava una fortissima sintomatologia dolorosa (non controllabile neppure farmacologicamente con l’uso di morfina), nonché l’assoluta impossibilità della deambulazione, tanto da sottoporsi – all’esito di ripetuti esami radiografici, che ebbero ad evidenziare la presenza di una lesione del nervo surale – ad un nuovo intervento chirurgico, eseguito sempre presso l’Istituto Ortopedico e dallo stesso Medico convenuti, per risolvere la sofferenza del nervo surale e ridurre l’eccessivo gradino lasciato dalla prima operazione”.

All’esito del secondo intervento, in relazione al quale la donna lamenta non essere stato acquisito il consenso, il quadro clinico risultava ulteriormente peggiorato, con comparsa di dolore anche nella zona dei tendini peronei e il persistere dell’impossibilità di deambulare. Di talchè la sindrome pronatoria, neppure col secondo intervento, risultava migliorata.

Solo a seguito di ulteriori interventi e trattamenti, tra cui alcuni praticati all’estero,  recuperava la parziale funzionalità dell’arto, lamentando, comunque, un’invalidità permanente del 60%, con riflessi – oltre che sulla sua attività di odontoiatra – anche nello svolgimento delle normali attività della vita quotidiana. E ciò “a causa dell’intrappolamento neurologico (impingment) del nervo surale, dell’irrigidimento del primo raggio”, oltre che a cagione della presenza di un alluce valgo iatrogeno in seguito all’artodesi, dell’eccessiva supinazione del piede e, non ultimo, di un appoggio dell’arto incompatibile con la funzione del piede.

Il Tribunale di Milano rigettava la domanda e, successivamente, i Giudici d’Appello confermavano tale decisione e la paziente si rivolge alla Cassazione.

La ricorrente, con i primi 3 motivi, censura la decisione della Corte territoriale nella parte in cui ha ritenuto infondato il motivo di gravame relativo alla violazione del diritto al consenso informato, in relazione all’intervento chirurgico. La paziente, infatti, ribadisce di non essere stata informata della possibilità che la sintomatologia dolorosa della sindrome pronatoria, all’esito di quell’operazione, si “incrementasse notevolmente”, nonché del fatto che “avrebbe avuto notevoli difficoltà nello stare in piedi e nel deambulare”, che avrebbe potuto “subire una lesione del nervo surale, causa principale della sostanziale paresi di una parte del piede” e che si sarebbe verificato un “peggioramento complessivo del quadro clinico”.

Il quarto motivo denuncia erronea scelta del trattamento chirurgico ed erronea esecuzione dello stesso.

La Suprema Corte rigetta il ricorso.

Il primi tre motivi di ricorso vengono ritenuti inammissibili. Le censure del primo, pongono questioni astrattamente meritevoli di attenzione, il cui eventuale accoglimento, però, non potrebbe in nessun caso giovare alla ricorrente. E ciò in ragione dell’impossibilità di accogliere gli altri due motivi di ricorso – il secondo e il terzo che investono la decisione del giudice di appello di non accogliere la domanda risarcitoria in relazione all’inadeguata informazione delle possibili conseguenze derivanti dal primo intervento chirurgico, eseguito per alleviare i disturbi della sindrome pronatoria.

Il rigetto di tale domanda è sorretto da due autonome “rationes decidendi”, l’una relativa all’esistenza di un’adeguata informazione, l’altra concernente, invece, la mancata dimostrazione del danno derivante dal diritto della paziente ad autodeterminarsi in modo consapevole, ove tale adeguata informazione le fosse stata assicurata.

E’ la stessa sentenza impugnata ad attestare che la paziente ebbe a lamentare, con il proprio atto di appello, “di non essere stata informata, oltre che delle terapie alternative, delle probabili lesioni del nervo surale, lussazione dei tendini peronei, perdita e/o parziale menomazione della deambulazione”, oltre che “del probabile aggravamento della sintomatologia dolorosa e peggioramento del quadro clinico anatomo-funzionale originario di sindrome pronatoria”.

La Corte d’appello di Milano, accertato il contenuto del modulo di consenso e la dichiarazione della paziente (laureata in Medicina) di averne compreso il significato, ha errato nel ritenere che il consenso fosse “da considerare validamente acquisito, considerato che le patologie indicate dall’appellante come probabili conseguenze non prospettate dal Medico, sono state ritenute dai CTU non in nesso causale con l’intervento.

La sentenza non tiene in debito conto il fatto che il modulo di consenso indicava quali “eventuali complicanze” unicamente il mancato consolidamento della osteotomia del calcagno, l’incompleta scomparsa della sintomatologia dolorosa da sindrome pronatoria, e una possibile sepsi, e non pure l’aggravamento della sintomatologia dolorosa, né, tantomeno, il peggioramento del quadro clinico anatomo-funzionale originario.

In relazione a tali circostanze, non coglie nel segno richiamare le risultanze delle CTU. Difatti, anche a ritenere che il riferimento dei Consulenti alle patologie lamentate dalla donna, che sarebbero state prive di relazione causale con l’intervento, concerna non la sola lussazione dei tendini peronei (sulla quale la sentenza, per vero, unicamente si sofferma, richiamando l’elaborato dei consulenti), ma pure la lesione del nervo surale, resterebbero fuori della valutazione dei Consulenti, e di conseguenza dello stesso Giudice di appello, le ulteriori evenienze costituite, appunto, ” dall’aggravamento della sintomatologia dolorosa della sindrome pronatoria e dal peggioramento del quadro clinico anatomo-funzionale originario”, oltre alla “perdita e/o parziale menomazione della deambulazione”.

Sotto questo profilo, allora, deve ritenersi effettivamente integrato il denunciato vizio di falsa applicazione della “regula iuris” secondo cui l’obbligo di cui si discute “ha per oggetto l’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento prospettato ed in particolare la possibilità del verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione dello stesso” anche solo “di un aggravamento delle condizioni di salute del paziente, onde porre quest’ultimo in condizione di consentire consapevolmente al trattamento medesimo”.

Tuttavia, l’esito del primo motivo di ricorso è strettamente dipendente dallo scrutinio del secondo e del terzo inerenti il mancato riconoscimento del diritto al ristoro dei danni in quanto non risulta “allegato alcun profilo per dimostrare che, ove fosse stata ancor più dettagliatamente informata, non avrebbe effettuato l’intervento chirurgico, considerando anche che, come espresso dai CTU, avrebbe dovuto convivere con la sintomatologia algodisfunzionale della sindrome pronatoria, o le alternative chirurgiche avrebbero comportato maggiori limitazioni funzionali”.

Dall’atto di appello emerge che, al punto 1), la paziente richiedeva di “accertare e dichiarare la responsabilità dei convenuti per inadempimento all’obbligo di informazione”, con “conseguente condanna dei medesimi al risarcimento del danno subito, come quantificato di seguito”, senza che sia, però, chiarito in che termini la domanda risarcitoria fosse stata formulata.

Ricorre, dunque, un deficit espositivo, tanto più rilevante se si considera che della questione della risarcibilità del danno da violazione del diritto di autodeterminazione “ex se” ,  non vi è cenno alcuno in sentenza.

Tale deficit riverbera sull’ammissibilità del motivo, e ciò in applicazione del principio secondo cui, “ove una determinata questione giuridica – che implichi un accertamento di fatto – non risulti trattata in alcun modo nella sentenza impugnata, il ricorrente che proponga detta questione in sede di legittimità ha l’onere, al fine di evitare una statuizione di inammissibilità per novità della censura, non solo di allegarne l’avvenuta deduzione innanzi al giudice di merito, ma anche di indicare in quale atto del giudizio precedente vi abbia provveduto, onde dare modo alla Corte di cassazione di controllare “ex actis” la veridicità di tale asserzione prima di esaminare nel merito la questione stessa”.

Ad ogni modo, si tratta di un accertamento di fatto – in ordine al mancato raggiungimento della prova del danno – che non può essere messo in discussione in Cassazione, visto che l’eventuale cattivo esercizio del potere di apprezzamento delle risultanze istruttorie, da parte del Giudice di merito, non dà luogo ad alcun vizio denunciabile con il ricorso per cassazione.

Conclusivamente, qualora la decisione di merito si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte e autonome, singolarmente idonee a sorreggerla sul piano logico e giuridico, la ritenuta infondatezza delle censure mosse ad una delle “rationes decidendi” rende inammissibili, per sopravvenuto difetto di interesse, le censure relative alle altre ragioni esplicitamente fatte oggetto di doglianza, in quanto queste ultime non potrebbero comunque condurre, stante l’intervenuta definitività delle altre, alla cassazione della decisione stessa.

Avv. Emanuela Foligno

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