Il ginecologo che ha il sospetto di una malformazione al feto deve avvertire la gestante, che ha il diritto di decidere se sottoporsi o meno a indagini e accertamenti, ancorché invasivi e rischiosi, ma necessari per affrontare una maternità cosciente e responsabile
La vicenda
Con sentenza pronunciata nel dicembre del 2003 il Tribunale di Trento aveva condannato il ginecologo che aveva seguito la gravidanza dell’attrice da cui era nata nel 1996 una bambina con malformazioni per infezione di cytalomegalovirus (CMV); con la stessa sentenza il tribunale aveva condannato anche l’Ospedale a risarcire i genitori della piccola per il danno morale derivante dal reato di cui all’articolo 328 c.p. (“Rifiuto di atti d’ufficio. Omissione”); aveva invece, rigettato la domanda di risarcimento degli ulteriori danni, tra l’altro, per assenza di nesso causale tra l’incompleta informazione del rischio di infezione primaria del feto dal suddetto virus e il mancato esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza.
Il primo ricorso per Cassazione
Rigettato l’appello i due ricorrenti proponevano ricorso per cassazione e la Suprema Corte, con sentenza del 2010, cassava con rinvio la sentenza di secondo grado, confermando da una parte l’inesistenza (già dichiarata dal giudice d’appello) del reato di cui all’articolo 328 c.p. e dichiarando che il ginecologo avesse violato il diritto della gestante a essere informata sulla esistenza di indagini, pur pericolose per il feto, dirette ad accertare se questi avesse contratto il suddetto virus o se vi fossero anomalie-malformazioni; stabiliva altresì di accertare se, in rapporto a tale violazione dell’obbligo di informazione (inadempimento del contratto tra medico e paziente), la conoscibilità di anomalie e malformazione del feto con i mezzi diagnostici all’epoca disponibili avrebbe causato (secondo una prognosi postuma), applicando la regola del “più probabile che non”, un grave pericolo di lesione del diritto alla salute della donna; e infine di accertare se per tale violazione dell’obbligo di informazione fosse stato leso anche il coniuge della paziente, pur terzo rispetto al contratto.
Riassunta la causa dai coniugi dinanzi alla Corte d’Appello di Brescia, quest’ultima disponeva consulenza tecnica d’ufficio e poi, con sentenza del 28 aprile 2017, rigettava le domande ritenendo che “le conoscenze dell’epoca non avrebbero consentito di diagnosticare la natura primaria dell’infezione da CMV. Sarebbe stata infatti necessaria la funicolocentesi, che però non avrebbe potuto essere espletata sulla base di un referto sierologico come quello risultato per l’attrice; escludeva, pertanto, la responsabilità del ginecologo per non aver comunicato ai futuri genitori il mero sospetto relativo all’infezione contratta da virus.
L’ulteriore ricorso per Cassazione
La sentenza è tornata nuovamente in Cassazione. A detta dei ricorrenti la Corte d’Appello aveva errato nella parte in cui aveva escluso che la violazione del diritto di informazione avesse causato, nel caso di specie, danni risarcibili. Il ginecologo, anziché rassicurare la gestante, avrebbe dovuto, in adempimento dei suoi obblighi informativi, informarla dell’esistenza di centri ove il problema sarebbe stato oggetto di indagine specifica.
A ciò si sarebbe aggiunto la violazione del diritto di autodeterminazione: e ciò non solo per l’interruzione volontaria della gravidanza, ma altresì in ordine alla ricerca di un ulteriore parere e di un centro più attrezzato per effettuare la funicolocentesi o “sperimentare nuove metodiche”, così violando i diritti fondamentali ai sensi degli articoli 2, 13 e 32 Cost dei futuri genitori, inteso quale “diritto di esprimere la propria personalità, la libertà personale, la salute”.
La decisione
La Corte di Cassazione (Terza Sezione Civile, sentenza n. 29497/2019) questa volta, ha accolto il ricorso poiché già la sentenza rescindente aveva accertato la violazione dell’obbligo di informazione da parte del sanitario che, con la sua condotta, aveva impedito alla gestante di fruire della conoscibilità, già all’epoca sussistente, della situazione del feto; in altre parole, le aveva sottratto “la libertà di decidere se sottoporsi o meno ad indagini ed accertamenti citogenetici, ancorché invasivi e rischiosi per il feto – amniocentesi, villocentesi, funicolocentesi (eseguibili dalla diciottesima settimana) – onde affrontare una maternità cosciente e responsabile“.
Il giudice del rinvio avrebbe pertanto dovuto limitarsi a verificare la sussistenza o meno di una lesione del diritto alla salute della gestante, vale a dire se fossero configurabili danni per mancato esercizio del diritto all’interruzione volontaria della gravidanza e non anche accertare nuovamente la violazione dell’obbligo informativo. Così facendo la Corte d’appello di Brescia aveva riportato indietro il thema decidendum trascurando quanto si fosse già cristallizzato nella sentenza rescindente.
Per queste ragioni la sentenza è stata cassata con rinvio alla Corte d’appello di Trento in diversa composizione.
Avv. Sabrina Caporale
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