Il superamento del periodo di comporto è condizione sufficiente di legittimità del licenziamento, nel senso che a tal fine non è necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse

Con la sentenza impugnata la Corte di Appello di Milano aveva dichiarato illegittimo il licenziamento intimato alla ricorrente dalla società datrice di lavoro per superamento del periodo di comporto, ritenendo che la protratta assenza della lavoratrice dal posto di lavoro fosse giustificata dalla sussistenza di un nesso di causalità tra l’infortunio (sul lavoro) dalla stessa subito e il periodo di malattia; per queste ragioni aveva condannato la società alla reintegrazione della dipendente nel posto di lavoro, ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, commi 4 e 7.

Contro tale decisione la società ha proposto ricorso per cassazione lamentando l’omessa considerazione, ai fini della valutazione, del consolidato orientamento giurisprudenziale secondo cui le assenze dovute per infortunio o malattia professionale sono riconducibili all’ampia e generale nozione di malattia contenuta nella disposizione codicistica e sono normalmente computabili nel periodo di conservazione del posto di lavoro, salva la responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c., che, nel caso di specie, non era stata accertata pur costituendo fatto decisivo ai fini dell’esito del giudizio; lamentava inoltre la violazione dell’art. 2729 c.c., avendo la corte d’appello, in adesione alle conclusioni tratte dal consulente medico d’ufficio, ritenuto sussistente un nesso causale tra l’infortunio sul lavoro (ove la lavoratrice aveva riportato una contusione all’anca sinistra) e le assenze per malattia.

Il superamento del periodo di comporto

Ebbene, il ricorso è stato accolto. Il Supremo Collegio (Sezione Lavoro, n. 2527/2020) ha chiarito che “la fattispecie di recesso del datore di lavoro in caso di assenze determinate da malattia del lavoratore si inquadra nello schema previsto ed è soggetta alle regole dettate dall’art. 2110 c.c., che prevalgono, per la loro specialità, sia sulla disciplina generale della risoluzione del contratto per sopravvenuta impossibilità parziale della prestazione lavorativa, sia sulla disciplina limitativa dei licenziamenti individuali, con la conseguenza che (…), il datore di lavoro, da un lato, non può unilateralmente recedere o, comunque, far cessare il rapporto di lavoro prima del superamento del limite di tollerabilità dell’assenza (cosiddetto periodo di comporto) predeterminato per legge, dalla disciplina collettiva o dagli usi, oppure, in difetto di tali fonti, determinato dal giudice in via equitativa, e, dall’altro, che il superamento di quel limite è condizione sufficiente di legittimità del recesso, nel senso che non è all’uopo necessaria la prova del giustificato motivo oggettivo nè della sopravvenuta impossibilità della prestazione lavorativa, nè della correlata impossibilità di adibire il lavoratore a mansioni diverse, senza che ne risultino violati disposizioni o principi costituzionali” (Cass. n. 5413 del 2003).

Le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale, in quanto riconducibili alla generale nozione di infortunio o malattia contenuta nell’art. 2110 c.c., sono normalmente computabili nel previsto periodo di conservazione del posto, mentre, affinché l’assenza per malattia possa essere detratta dal periodo di comporto, non è sufficiente che la stessa abbia un’origine professionale, ossia meramente connessa alla prestazione lavorativa, ma è necessario che, in relazione ad essa ed alla sua genesi, sussista una responsabilità del datore di lavoro ex art. 2087 c.c. (Cass. n. 5413 del 2003; Cass. n. 22248 del 2004; Cass. n. 26307 del 2014; Cass. 15972 del 2017; Cass. n. 26498 del 2018).

Assenze per malattia: quando non sono computabili nel periodo di comporto?

Più esattamente, la Cassazione ha affermato che non sono computabili le assenze del lavoratore dovute ad infortunio sul lavoro o a malattia professionale nel periodo di comporto quando “l’infortunio sul lavoro o la malattia professionale non solo abbiano avuto origine in fattori di nocività insiti nelle modalità di esercizio delle mansioni e comunque presenti nell’ambiente di lavoro, e siano pertanto collegate allo svolgimento dell’attività lavorativa, ma altresì quando il datore di lavoro sia responsabile di tale situazione nociva e dannosa, per essere egli inadempiente all’obbligazione contrattuale a lui facente carico ai sensi dell’art. 2087 c.c., norma che gli impone di porre in essere le misure necessarie secondo la particolarità del lavoro, l’esperienza e la tecnica – per la tutela dell’integrità fisica e della personalità morale del lavoratore, atteso che in tali ipotesi l’impossibilità della prestazione lavorativa è imputabile al comportamento della stessa parte cui detta prestazione è destinata”(Cass. n. 7037 del 2011).

Nel caso di specie, la Corte di merito, nel ritenere escluse dal periodo di comporto le assenze conseguenti all’infortunio sul lavoro occorso alla dipendente, aveva esclusivamente valutato (anche avvalendosi di consulente tecnico d’ufficio) il collegamento causale tra la patologia che aveva determinato l’assenza per malattia e l’infortunio subito, omettendo di effettuare un’indagine sui profili di colpa del datore di lavoro, in tal modo erroneamente interpretando e applicando la disciplina dettata dall’art. 2110 c.c.

La decisione

La Corte territoriale aveva, invero, accertato che la patologia sofferta dalla lavoratrice alla caviglia sinistra fosse causalmente e direttamente collegata al predetto infortunio, senza svolgere altresì la valutazione della ricorrenza di una responsabilità datoriale nell’omissione delle misure necessarie per evitare l’evento e, dunque, trascurando il profilo dell’inadempimento datoriale all’obbligo di protezione imposto dall’art. 2087 c.c..

Per queste ragioni la Corte ha cassato la sentenza impugnata e rinviato la causa alla Corte di appello di Milano, in diversa composizione, per un nuovo esame.

La redazione giuridica

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