Spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un momento di lucido intervallo

La Corte di Cassazione ha ribadito che in materia di validità del testamento, ai sensi dell’art. 591 c.c., comma 2, n. 3, la prova dell’incapacità del testatore deve esistere al momento dell’atto e non genericamente al tempo dell’atto, come stabiliva l’art. 763 c.c. dell’abrogato codice civile.

La vicenda

L’attore chiamava in giudizio davanti al Tribunale di Trento due donne, sostenendo di essere nipote del deceduto, rispettivamente coniuge e padre delle convenute.

Precisava che il de cuius l’aveva nominato erede universale con un primo testamento olografo del 31 gennaio 2003, poi confermato da un secondo testamento olografo del 27 febbraio 2003 avente il medesimo contenuto, di cui chiedeva l’accertamento della validità e allo stesso tempo, domandava la declaratoria di nullità e inefficacia, per incapacità naturale, del disponente, dell’atto di riscatto di una Polizza Vita e della modifica della nomina del beneficiario di un’altra polizza, e che fosse ricostruito il patrimonio ereditario per accertare la quota di legittima del coniuge e della figlia.

A sostegno della domanda precisava che il de cuius aveva subito un primo ricovero ospedaliero il 2 aprile 2003, con diagnosi di dimissione di “demenza senile”, per poi subire un nuovo ricovero il 18 aprile 2004, con diagnosi “episodio confusionale in paziente affetto da encefalopatia vascolare cronica”.

Precisava ancora di aver fatto sottoporre a perizia grafica sia i due testamenti olografi sia le firme apposte sulle due polizze, con il seguente risultato: “testamenti scritti in stato di capacità e atti di disposizione sulle polizze firmate in stato di incapacità”.

Le convenute si costituivano nel giudizio e chiedevano il rigetto delle domande avversarie.

In particolare la figlia del de cuius, faceva valere un testamento pubblico del 12 maggio 2004, che la nominava unica erede universale.

L’attore chiedeva a verbale l’accertamento della nullità di tale testamento pubblico per incapacità di intendere e di volere del testatore.

Eseguita l’istruzione, il Tribunale di Trento, con sentenza non definitiva, disponeva l’annullamento del testamento pubblico e rimetteva la causa in istruttoria per il prosieguo.

Con sentenza definitiva il medesimo tribunale rigettava la domanda di nullità o annullabilità per incapacità naturale dell’atto di riscatto della polizza; accoglieva la analoga domanda con riferimento alla modifica del beneficiario dell’altra polizza, riconoscendo altresì, che l’attore, in qualità di erede del de cuius, fosse legittimato a chiedere l’annullamento dell’atto e, in qualità di originario beneficiario della polizza, avesse diritto ad agire nei confronti della convenuta per la restituzione dell’importo da questa incassato.

Le due donne proponevano, allora, appello sia contro la sentenza non definitiva che contro quella definitiva.

L’originario attore proponeva, invece, appello incidentale inteso a fare accertare, per quanto qui interessa, la nullità e annullabilità del riscatto della polizza vita e della modifica del beneficiario dell’altra polizza e, conseguentemente, a fare accertare che i relativi importi non dovevano essere conteggiati nell’asse ereditario ai fini della formazione delle quote di legittima spettanti al coniuge e alla figlia del testatore.

La Corte d’appello di Trento disponeva accertamento medico legale.

Ebbene, in base a tale consulenza la corte stabiliva che il disponente era realmente affetto da “demenza vascolare” e che tale patologia aveva avuto il suo esordio il 18 aprile 2004. Aggiungeva che l’esordio della malattia, di per sé, non poteva farsi coincidere con una condizione di stabile e permanente incapacità.

La pronuncia della Corte d’appello

La corte ricostruiva poi, in linea teorica e scientifica, il decorso di tale patologia (“a dente di sega”), per concludere che la malattia era certamente sfociata in una condizione di stabile demenza alla data del 29 giugno 2004, ovvero a far data dalla certificazione redatta dalla commissione preposta alla valutazione dell’invalidità civile.

Allo stesso tempo, i giudici dell’appello ritenevano, in considerazione del decorso della malattia, che non ci fossero elementi tali da far presumere che essa avesse raggiunto, già al momento del testamento pubblico, un livello tale da compromettere totalmente la capacità del testatore; rigettavano, quindi, la domanda di annullamento del testamento pubblico.

Per la cassazione della sentenza l’uomo ha proposto ricorso ai giudici di legittimità.

Gli esiti delle indagini cliniche – a detta del ricorrente – avrebbero dovuto indurre la corte a fare applicazione del principio dell’inversione dell’onere della prova. Non era l’attore a dover provare l’incapacità del testatore al momento della redazione del testamento, spettando alla parte che sosteneva la validità del testamento l’onere di provare un eventuale lucido intervallo nel momento della testamenti factio.

Ebbene, il motivo è stato accolto.

La Seconda Sezione Civile della Cassazione (ordinanza n. 26873/2019), ha affermato che “ai sensi dell’art. 591 c.c., comma 2, n. 3, la prova dell’incapacità del testatore deve esistere al momento dell’atto e non genericamente al tempo dell’atto, come stabiliva l’art. 763 c.c. dell’abrogato codice civile. Tuttavia, la regola non implica che la prova debba limitarsi a tale momento. Il giudice di merito può trarre la prova dell’incapacità del testatore dalle sue condizioni mentali in epoca anteriore o posteriore al testamento, sulla base di una presunzione, potendo l’incapacità essere dimostrata con qualsiasi mezzo di prova: ricorrendo tale ipotesi spetta alla parte che sostiene la validità del testamento l’onere di provare un eventuale lucido intervallo nel momento della formazione del testamento (Cass. n. 2666/1975; n. 3411/1978; n. 6236/1980)”.

Nel caso di specie, era incontestato il fatto che il 29 giugno 2004, data della certificazione redatta dalla commissione preposta alla valutazione della invalidità civile, il testatore versasse in una condizione di stabile demenza; ed era altrettanto certo che l’incapacità riscontata alla fine di giugno non fosse dovuta a un fatto acuto, ma rappresentava l’esito di una patologia il cui esordio è pacificamente collocato nel mese di aprile dello stesso anno 2004.

Ciononostante, la corte d’appello aveva definito la lite in applicazione della regola della presunzione di capacità; mentre in base ai principi sopra indicati, spettava a chi affermava la validità del testamento provare che il decorso della malattia non avesse ancora raggiunto lo stadio dell’incapacità al momento della testamenti factio.

Per queste ragioni, i giudici della Suprema Corte hanno cassato la decisione impugnata, rinviando la causa al giudice di merito che dovrà attenersi al seguente principio di diritto:

in tema di incapacità di testare a causa di incapacità di intendere e di volere al momento della redazione del testamento, il giudice del merito può trarre la prova dell’incapacità del testatore dalle sue condizioni mentali, anteriori o posteriori, sulla base di una presunzione, potendo l’incapacità stessa essere dimostrata con qualsiasi mezzo di prova; conseguentemente, quando l’attore in impugnazione abbia fornito la prova di una condizione di permanente e stabile demenza nel periodo immediatamente susseguente alla redazione del testamento, poiché in tal caso la normalità presunta è l’incapacità, spetta a chi afferma la validità del testamento la prova della sua compilazione in un momento di lucido intervallo“.

La redazione giuridica

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