Riconosciuta in sede penale la responsabilità del Chirurgo, il Giudice condanna quest’ultimo e la Casa di Cura al ristoro dei danni alla paziente e al figlio di riflesso (Tribunale di Roma, Sentenza n. 14310/2021 del 10/09/2021 RG n. 34477/2014)

La paziente danneggiata e il figlio citano a giudizio la Casa di Cura e il Chirurgo, chiedendo i danni patrimoniali e non patrimoniali dalla stessa subiti a causa dell’intervento chirurgico di vertebroplastica su di lei eseguito il 7 giugno 2010 presso la clinica e quantificati in euro 2.083706,12 , oltre al risarcimento nei confronti del figlio per danno riflesso della somma di euro 388.000,00.

Gli attori deducono che il Medico convenuto, imputato per i reati di cui agli artt. 590 e 583 co. 2 c.p. per avere ” nella sua qualità di medico che ebbe ad eseguire sulla paziente un intervento di vertebroplastica, cagionato alla medesima lesioni personali gravissime che hanno determinato l’indebolimento permanente dell’apparato osteoarticolare con localizzazione dorso -vertebrale… per colpa consistita in imperizia ed in particolare nell’aver prodotto lo spandimento in misura non giustificabile del cemento osseo all’interno dello spazio epidurale “, era stato condannato dal Tribunale di Roma, con sentenza n. 14286 del 23 luglio 2013, alla pena di mesi due di reclusione e a risarcire il danno alle parti civili costituitesi nella misura da determinarsi in sede civile, nonchè a saldare in favore della paziente una provvisionale di euro 25.000,00.

La sentenza penale risulta passata in giudicato.

Gli attori deducono in particolare che il programma riabilitativo al quale era stata sottoposta la donna a seguito degli interventi eseguiti aveva portato solo ad un parziale recupero della mobilità degli arti inferiori, totalmente compromessa a causa dell’evento e che il notevole peggioramento delle condizioni aveva cagionato danni patrimoniali e non patrimoniali. Lo stesso evento lesivo aveva cagionato danni anche al figlio il quale si era privato delle proprie abitudini quotidiane per assistere la madre bisognosa, aveva abbandonato i propri studi e sofferto uno stato depressivo.

Il Giudice dispone CTU Medico-Legale dalla quale emerge:

“In data 26 aprile 2010, la paziente, affetta da crollo del tratto della colonna dorsale D4 -D6 per possibile osteoporosi, aveva consultato il neurochirurgo il quale, dopo averla visitata e confermato tale patologia (evidenziata alla RMN), le aveva proposto un intervento di vertebroplastica. In data 7 giugno 2010, si era recata, camminando con l’ausilio di stampelle, presso la Clinica Addominale dell’Eur per sottoporsi nella stessa giornata all’intervento in questione. Nel corso dell’intervento, il chirurgico, che governava a mano l’irrogazione del materiale cementizio e ne controllava in tempo reale l’espansione mediante apparecchiatura in scopia, pur avendo la completa possibilità di arrestare immediatamente il flusso del suddetto materiale, lasciava che una quantità importante dello stesso invadesse il canale midollare dell’odierna attrice. Per salvaguardare le condizioni della donna divenute critiche, veniva eseguita, sempre nella stessa giornata, una seconda operazione, di decompressione con applicazione di viti e placche metalliche sulla colonna vertebrale. In data 18 giugno 2010 la donna era stata dimessa e trasferita presso il Policlinico Italia per la riabilitazione, per esservi dimessa in data 20 agosto 2010.”

Il Giudice osserva che la sentenza penale passata in giudicato, infatti, vincola per quanto concerne l’accertamento dei fatti, non quanto alle valutazioni e qualificazioni giuridiche attinenti agli effetti civili della pronuncia, quali sono quelle che attengono all’individuazione delle conseguenze dannose che possono dare luogo a fattispecie di danno risarcibile.

Ciò premesso, vengono condivise le conclusioni cui è pervenuto il CTU in merito alla correttezza della diagnosi formulata : “la vertebroplastica, ovvero l’operazione chirurgica eseguita sulla paziente, è da considerarsi “trattamento d’elezione” in presenza di “fratture vertebrali in senso lato e, nello specifico, ovviamente anche di quelle di natura osteoporotica”, riscontrate nel caso di specie. Si tratta di procedura la cui utilità” consiste nella rapida remissione della sintomatologia doloroso-disfunzionale, anche in considerazione che l’alternativa terapeutica è il trattamento con presidi farmacologici e contenzione con busto per un periodo di 30-60 gg con quasi totale immobilità a letto”.

Ed ancora, in allineamento alle risultanze penali: “le cause della difettosa esecuzione dell’operazione sono da rinvenirsi nella fuoriuscita di cemento dall’interno del corpo vertebrale da consolidare, cemento che con la pressione impressa all’iniettore si è diretto e localizzato verso la colonna comprimendo la dura madre e provocando di conseguenza una lesione midollare (sia da pressione che termica. Subito dopo, per l’evento avverso causato dalla iniezione del cemento stravasato dalla sede prevista, si è reso necessario un secondo intervento di decompressione midollare che ha portato solo ad una attenuazione dei danni.”

” Il I° intervento ha causato dei postumi assolutamente non compatibili con un intervento di Vertebroplastica correttamente eseguito che può avere come esito una sintomatologia doloroso -disfunzionale ma certamente non una importante paraparesi con S. della Cauda “. In questa prospettiva, l’operato dei sanitari, con l’inadeguatezza del trattamento chirurgico complessivo (il I° che ha portato alla necessità immediata del II° intervento) ” è stato definito come la ” causa (unica e diretta) per l’insorgenza della patologia finale oggi presente “. Il danno causalmente collegato agli atti operatori precedentemente richiamati è costituito dai riscontrati ” Deficit motorio e della deambulazione in Pz con paraparesi (sn > dx), Sindrome della Cauda, vescica neurologica con pannolone a permanenza “, in ragione dei quali è residuato un danno biologico permanente complessivamente valutato nella misura del 52%, tenendo conto di a) paraparesi incidente nella misura del 55%; b) vescica neurologica incidente per una misura del 20% e c) una menomazione preesistente valutabile in misura pari al 23%, con inabilità assoluta di 60 giorni e inabilità relativa di 60 giorni”.

Le conclusioni cui è pervenuto il CTU in ordine alla valutazione del nesso causale tra le operazioni chirurgiche e la patologia insorta nel paziente non vengono del tutto condivise, tenuto conto delle risultanze degli atti e delle contraddizioni in cui è incorso il medesimo CTU. In particolare, viene ravvisata la contraddittorietà logica dell’elaborato peritale e dei chiarimenti forniti in udienza, nella parte in cui il CTU ravvisa l’esistenza di un nesso di causalità tra la negligenza e l’imperizia del chirurgo nell’esecuzione dell’intervento di vertebroplastica e la vescica neurologica.

Ed invero, dalla documentazione in atti si evince che all’epoca del ricovero l’attrice risultava ” portatrice di busto ortopedico. Il 29.4.10 ha eseguito RM colonna dorso -lombo -sacrale che mostrava alterazione di D4 e D6, i cui corpi vertebrali appaiono deformati a cuneo anteriore in relazione a crollo parziale e avvallamento delle limitanti somatiche superiori di entrambe le vertebre. Inoltre protrusione discale posteriore mediana di L3 -L4 con impronta sulla superficie ventrale del sacco durale “.

Lo stesso CTU ha evidenziato nell’elaborato peritale provvisorio che ” al ricovero presso la Casa di Cura Addominale, la Pz. Non presentava deficit neurologici, ma era affetta da una situazione algo – disfunzionale provocata essenzialmente dal dolore acuto a livello vertebrale che provocava la disfunzionalità con difficoltà marcata nella stazione eretta e nella marcia, possibile, ma con necessità del sostegno di stampelle o di deambulatore “.

La donna non presentava significativi deficit neurologici nemmeno a seguito degli interventi chirurgici.

Ciò si evince dalla relazione del Consulente del Pubblico Ministero del 28.02.2011, nella quale si legge che la paziente risulta affetta dagli esiti di stabilizzazione chirurgica vertebrale D4 -D5 e D7 -D8 con estesa decompressione midollare, da spandimento nello spazio epidurale di cemento osseo durante l’intervento di vertebroplastica. Si evidenzia una condizione algodisfunzionale del tratto dorsale vertebrale senza deficit significativi neurologici sensitivo -motori “.

Dalla documentazione indicata si evince dunque che, almeno fino a quel momento, l’attrice non soffrisse di alcun disturbo della continenza sfinterica e che fosse capace di deambulare, pur assistita.

Emerge poi che nel 2012 sia stata diagnosticata una polineuropatia sensitivo -motoria degli arti inferiori da “abuso alcolico” e, come si legge nella relazione dello stesso Consulente tecnico, “che dalla ASL di appartenenza le è stata riconosciuta I.C. del 100 % (nel 2012) e che successivamente le è stata concessa anche l’indennità di accompagnamento, confermata nel Giugno 2016 “.

Il CTU, dunque, non ha tenuto nella dovuta considerazione né la circostanza che il disturbo della continenza sfinterica è comparso a distanza di quasi due anni dall’intervento né ha chiarito se e in che modo la polineuropatia sensitivo -motoria degli arti inferiori da “abuso alcolico” possano aver avuto effetti sulla regolazione neurogena della vescica.

Né risulta persuasiva l’affermazione secondo cui ” la causa della situazione clinica presentata oggi dall’attrice è dipesa in modo diretto, unico , immediato ed anche differito dalla iniezione di cemento effettuata in D6 con la Vertebroplastica; nel tempo, c’è stata un’evoluzione peggiorativa, tanto che non sappiamo se detta evoluzione possa ritenersi conclusa “. Occorre infatti rammentare che gli interventi chirurgici eseguiti risalgono all’anno 2010, mentre le operazioni peritali si sono svolte tra dicembre 2017 e l’inizio del 2018, ossia a distanza di quasi otto anni dagli interventi. Alla luce delle suddette circostanze offerte dal caso concreto, non può ritenersi raggiunta la prova – secondo i criteri probabilistici e di distribuzione dell’onere probatorio sopra indicati – che l’insorgenza del danno alla vescica neurologica sia riconducibile causalmente alla non corretta esecuzione degli interventi chirurgici “.

Sotto altro profilo, non risulta sufficientemente giustificato l’ulteriore aumento del danno biologico nella misura del 10% effettuato dal CTU in sede di chiarimenti.

Il consulente si è limitato a mera addizione aritmetica tra le diverse percentuali di invalidità relative alle lesioni permanenti riscontrate, laddove la valutazione del danno biologico permanente necessita di valutazione complessiva della condizione psico -fisica della paziente.

Viene quindi ritenuto che alla donna sia residuato un danno biologico permanente complessivamente valutabile nella misura del 32%, detraendo dalla riscontrata paraparesi -valutata nella misura del 55% – la preesistenza del 23%, e con esclusione del 20% connesso alla vescica neurologica e del 10% relativo all’artrodesi.

Viene liquidato a titolo di danno biologico l’importo di euro 115.828,57 (di cui EUR 105.874,57 a titolo di danno permanente, EUR 6.636,00 a titolo di I.T.A. per 60 gg ed EUR 3.318,00 a titolo di I.T.R. al 50% per 60 gg), tenuto conto del fatto che alla data del 7.6.2010 parte attrice aveva 54 anni.

A titolo di personalizzazione viene liquidata la somma di euro 35.000,00,oltre euro 3.928,93 per spese mediche.

Riguardo al danno riflesso del figlio, il Giudice rileva che risultano provate : a) le lesioni subite dalla madre; b) il rapporto tra quest’ultima e il figlio, all’epoca dei fatti quasi ventisettenne (essendo egli nato il 3.8.1983); c) la residenza di quest’ultimo con la madre.

Pacifico, pertanto, l’ affectio familiaris tra la vittima primaria di lesioni e il figlio, è ravvisabile l’esistenza di un pregiudizio di natura morale -interiore, meritevole di tutela risarcitoria, viene liquidato l’importo di euro 20.000,00.

Concludendo, quindi, i convenuti Casa di Cura e Chirurgo vengono condannati in solido al pagamento dell’importo di euro 149.757,50 in favore dell’attrice, e di euro 20.000,00 in favore del figlio, oltre a spese di lite liquidate in euro 13.430,00.

§§

La decisione a commento, a parere di chi scrive, risulta debole laddove non viene considerato che la domanda degli attori, in punto di quantum, è risultata notevolmente ridimensionata.

L’attrice ha richiesto l’importo di euro 2.083706,12 , oltre al risarcimento nei confronti del figlio per danno riflesso di euro 388.000,00.

I titoli di condanna, invece, sono stati di euro 149.757,50 perla donna ed euro 20.000,00 per il figlio.

Ebbene, tale importante divario, avrebbe dovuto quantomeno indurre a una parziale compensazione delle spese di giudizio.

Avv. Emanuela Foligno

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