Condannato il manovratore dell’autogrù alla pena di 8 mesi di reclusione per avere cagionato l’infortunio del lavoratore a causa della violazione delle norme di sicurezza (Cassazione Penale, sez. IV, dep. 14/03/2024, n.10656).
La vicenda
Un lavoratore con mansioni di montatore di turbine era addetto a operazioni di sollevamento e scarico da un semirimorchio di un impianto di generazione elettrica da turbina a gas. Durante queste operazioni, l’impianto era collegato a un’autogrù tramite un’imbracatura con brache tessili anziché metalliche. A causa della rottura di una di queste brache il peso quanto sollevato (27 tonnellate) è franato sul lavoratore uccidendolo.
In seguito a questo tragico incidente, il Tribunale di La Spezia e la Corte d’Appello di Genova hanno condannato il manovratore dell’autogrù a otto mesi di reclusione per colpa, consistita nella violazione della normativa antinfortunistica.
Inoltre, i Giudici di merito dichiaravano non doversi procedere per prescrizione in relazione al reato di cui agli artt. 20, secondo comma lett. b), 59 lett. a) D.Lgs. 9/4/2008 n. 81, per avere l’imputato omesso di richiedere all’azienda dalla quale dipendeva la messa a disposizione di brache idonee alla tipologia di sollevamento, facendo, viceversa, uso di brache tessili, non adatte a l’operazione stante la presenza di parti taglienti nell’impianto da sollevare e per avere iniziato l’operazione di sollevamento, nonostante la presenza dell’infortunato sopra l’impianto.
La ricostruzione dei fatti
Al momento dei fatti, il generatore era stato imbragato proprio dalla vittima con braghe tessili e lo stesso, per compiere tale operazione, era salito sopra il macchinario.
Successivamente, la gru manovrata dall’imputato effettuava il sollevamento, che avveniva per pochi centimetri, in quanto una delle braghe tessili, a causa del peso e del contatto con una parte del macchinario metallico affilato, si rompeva ed il generatore cadeva sul camion, sobbalzando in modo significativo, in ragione della presenza degli ammortizzatori del veicolo. A causa di tale brusco movimento, l’operaio cadeva sulla superficie metallica del generatore, battendo la testa e perdendo la vita dopo alcuni giorni.
Dunque, l’imputato, manovratore della autogrù con la quale doveva operarsi la movimentazione di un macchinario del peso di circa 27 tonnellate da un semirimorchio con il quale era stato trasportato al piazzale, aveva fornito al lavoratore infortunato per l’imbragatura del macchinario delle braghe di tela anziché delle catene di ferro, ed aveva consentito che l’infortunato, durante l’operazione di scarico, stesse in piedi sul macchinario medesimo.
Come sottolineato dalla Corte d’Appello, la dinamica dell’infortunio del lavoratore non è mai stata oggetto di contestazione.
La responsabilità dell’infortunio del lavoratore
La responsabilità dell’infortunio mortale è stata basata sul fatto che il manovratore della gru non doveva consentire all’operaio di rimanere sul macchinario durante la manovra di sollevamento. Ciò integra una grave violazione delle norme di sicurezza.
Oltre a ciò, lo strumento utilizzato per il sollevamento del macchinario, ovverosia le braghe tessili, erano del tutto inadeguate per la presenza di parti del generatore taglienti, in grado – così come avvenuto – di determinarne la rottura; sarebbero stati necessari dei rinforzi, o, in mancanza, delle catene.
Era compito dell’imputato verificare la presenza di imbragature adatte alla movimentazione del pesante carico e, evidentemente, ed anche metterle a disposizione.
Il nesso di causalità
Il Giudice di primo grado, in punto di nesso di causalità, ha dato atto che non risultava svolta da parte dell’ufficio di Procura una consulenza tecnica sul nesso di causalità, e che, pertanto, la valutazione riguardava la documentazione medica acquisita, le dichiarazioni rese in sede dibattimentale dal medico curante dell’imputato, teste indotto dalla difesa, nonché sulla consulenza medica della difesa. Proprio in relazione a quanto dichiarato medico curante della vittima la Corte di Appello ha ritenuto non necessario un ulteriore accertamento peritale poiché è stato chiarito dal teste che senza il ricovero ospedaliero non sarebbero insorte le complicazioni che, innestandosi su una situazione di patologia preesistente dell’infortunato, lo hanno prematuramente condotto a morte.
Sul punto, come più volte chiarito, la mancata rinnovazione in appello dell’istruttoria dibattimentale può essere censurata soltanto – il che nel caso che ci occupa non è avvenuto – qualora si dimostri l’esistenza, nell’apparato motivazionale posto a base della decisione impugnata, di lacune o manifeste illogicità, ricavabili dal testo del medesimo provvedimento e concernenti punti di decisiva rilevanza, le quali sarebbero state presumibilmente evitate provvedendosi all’assunzione o alla riassunzione di determinate prove in appello.
Le gravi patologie preesistenti non determinano l’interruzione del nesso causale
È pertanto pacificamente da ritenersi provato, secondo la doppia conforme dei Giudici di merito, che la situazione di immobilizzazione, dovuta alle gravi fratture ossee vertebrali, portava sia il decubito sacrale che la polmonite ipostatica da stafilococco, e quindi, un generale decadimento delle condizioni generali, che, unite alle gravi patologie preesistenti, causavano la morte dell’operaio.
Non è possibile ipotizzare una interruzione del nesso causale in quanto solo le concause successive, e non anche quelle preesistenti, da sole idonee a determinare l’evento, possono determinare l’interruzione del nesso di causalità. Eliminando, pertanto, tramite il giudizio controfattuale, l’infortunio del lavoratore e quindi il conseguente ingresso dell’operaio in ospedale, la sua immobilizzazione, con le piaghe da decubito, la grave polmonite e lo scadimento delle condizioni generali, al di là di ogni ragionevole dubbio, egli non sarebbe morto nelle circostanze in cui tale evento poi effettivamente si verificava.
Avv. Emanuela Foligno