La Corte di Cassazione conferma il divieto di avvicinamento nei confronti di un uomo responsabile di violenza domestica, ribadendo che le condotte della vittima, anche se problematiche o conflittuali, non escludono la responsabilità dell’aggressore. L’ordinanza evidenzia la gravità dei comportamenti reiterati, commessi nonostante misure cautelari già in corso (Corte di Cassazione, VI penale, sentenza 10 ottobre 2025, n. 33636).
La vicenda giudiziaria
Il 22 aprile 2025, il GIP aveva respinto la richiesta di aggravamento della misura cautelare dell’allontanamento dalla casa familiare nei confronti dell’imputato, già soggetto dal 2021 a divieto di avvicinamento alla persona offesa e ai figli e all’uso del braccialetto elettronico. In seguito, il Pubblico Ministero ha presentato appello e, il 29 maggio 2025, il Tribunale di Torino ha accolto la richiesta, disponendo la custodia cautelare in carcere dell’indagato.
L’imputato ha chiesto l’annullamento di tale ordinanza, sostenendo che il Tribunale avrebbe considerato solo le dichiarazioni precedenti del minore, avrebbe erroneamente ritenuto l’indagato disoccupato, mentre in realtà svolge attività lavorativa fino alle 18:00, e avrebbe dato rilievo a episodi di ubriachezza ormai risalenti.
Il ricorso in Cassazione viene dichiarato inammissibile perché proposto per motivi generici e infondati. L’ordinanza del Tribunale ha fatto corretta applicazione dei principi che regolano la valutazione dei gravi indizi di colpevolezza costituiti dalle dichiarazioni rese dalla persona offesa dal reato e dagli accertamenti di polizia giudiziaria che hanno documentato come l’indagato, tornato stabilmente a vivere con la ex-compagna, già moglie dalla quale aveva divorziato, abbia ripreso comportamenti abusanti tanto da essere stato tratto in arresto, il 20 gennaio 2025, mentre si trovava in compagnia delle persone offese (la convivente e i figli), fatti segno di reiterate e violente condotte che sono risultate perduranti al marzo 2025 come riferito da una delle vittime, e gravi perché commesse mentre erano in corso le misure dell’allontanamento dalla casa familiare e il divieto di avvicinamento alle persone offese.
Il contesto familiare e la violenza domestica
L’ordinanza in questione descrive un contesto familiare caratterizzato da insulti e vessazioni non solo in danno della ex-moglie dell’indagato ma anche nei confronti dei figli minori della donna, ripresi in concomitanza della convivenza dell’indagato presso l’abitazione familiare e nonostante la presenza in casa di uno zio dei minori, fratello della convivente, che si limitava a consolare i minori ma che non era in grado di contenere la violenza dell’indagato.
Per nulla dirimente è la circostanza che l’indagato svolga attività lavorativa, posto che al rientro a casa è ubriaco e continua a chiedere alcol e birra, né la circostanza che anche la convivente, madre dei minori, abusi a propria volta di alcol, circostanza questa che, nella erronea prospettazione difensiva, assumerebbe rilievo quale causa scatenante degli agiti violenti dell’indagato.
La più recente giurisprudenza ha escluso la fondatezza della tesi difensiva, secondo cui non è configurabile il reato di maltrattamenti quando si è in presenza di condotte reciproche, il reato di maltrattamenti in famiglia è configurabile, infatti, anche nel caso in cui le condotte violente e vessatorie siano poste in essere dai familiari in danno reciproco gli uni degli altri poiché il reato non prevede il ricorso a forme di sostanziale autotutela, mediante un regime di “compensazione” fra condotte penalmente rilevanti e reciproche.
Le condotte maltrattanti reciproche
Ad ogni modo, evidenzia la S.C. che il presupposto logico e giuridico per potere prospettare l’applicazione della reciprocità imporrebbe, comunque, che si sia in presenza di offese di intensità e gravità equivalenti dei comportamenti. Nel caso in esame, invece, le condotte ascritte alla persona offesa si risolvono in mere rimostranze verbali rispetto alle quali la donna è sopraffatta dall’indagato e costretta a subire violenze fisiche, con morsi e aggressioni con oggetti contundenti, e incapace di sottrarre i figli alle violenze del compagno.
In conclusione, i giudici dichiarano il ricorso inammissibile con condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della cassa delle ammende.
Avv. Emanuela Foligno






