Per la Corte Costituzionale è legittima l’estensione delle misure interdittive antimafia nei confronti dell’attività privata delle imprese oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa in quanto non non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata

L’informazione antimafia interdittiva adottata dal Prefetto nei confronti dell’attività privata delle imprese oggetto di tentativi di infiltrazione mafiosa non viola il principio costituzionale della libertà di iniziativa economica privata perché, pur comportandone un grave sacrificio (nella specie era in gioco l’iscrizione all’albo delle imprese artigiane), è giustificata dall’estrema pericolosità del fenomeno mafioso e dal rischio di una lesione della concorrenza e della stessa dignità e libertà umana. 

È quanto ha affermato la Corte costituzionale con la sentenza n. 57/2020, dichiarando non fondate le questioni di legittimità costituzionale sollevate dal Tribunale di Palermo sugli articoli 89 bis e 92, commi 3 e 4, del decreto legislativo 6 settembre 2011 n. 159, ovvero il cosiddetto Codice antimafia.

La Corte, in particolare, non ha ravvisato profili di incostituzionalità nella scelta di affidare l’adozione della grave misura – interdittiva di ogni attività economica, anche privata – all’autorità amministrativa e non a quella giurisdizionale, come auspicato dal giudice rimettente.

Ciò in considerazione della necessità di svolgere un’azione preventiva, mediante il costante monitoraggio delle modalità di infiltrazione della mafia nell’economia, e della sua capacità di adattarsi alle specifiche situazioni locali e all’evoluzione della realtà economica.

In ogni caso, ha sottolineato la Corte, tali misure sono sottoposte ad un vaglio giurisdizionale pieno ed effettivo da parte del giudice amministrativo, che è chiamato a procedere a un esame sostanziale degli elementi raccolti dal prefetto, verificandone la consistenza e la coerenza, in modo da assicurare ai privati la necessaria tutela.

La redazione giuridica

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