La Suprema Corte si pronuncia sulla importante questione del criterio di calcolo inerente la perdita della capacità lavorativa specifica in una vicenda che vede opposte decisioni del Tribunale di Busto Arsizio e della Corte di Appello di Milano (Cass. Civile, sez. III, 16 febbraio 2024, n. 4289).
Il caso
Il Tribunale di Busto Arsizio, con sentenza 28 marzo 2018 n. 607, condannava l’Azienda Socio-Sanitaria e il Medico, in solido tra loro, a risarcire al paziente i danni subiti a seguito della imprudente e imperita esecuzione, in data 6 settembre 2010, di un intervento chirurgico di eliminazione di calcolo ureterale, esitata in fessurazione della parete vescicale periureterale, da cui erano residuati “postumi di prostatite, neuropatia del pudendo e sintomatologia dolorosa pelvica, con impossibilità di mantenere posture fisse prolungate ed esigenze ravvicinate di minzione”.
Il Tribunale liquidava il danno non patrimoniale (nell’importo di euro 120.000), accoglieva parzialmente la domanda di danno patrimoniale emergente per spese mediche. Rigettava quella relativo al danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa specifica, invocata dal paziente (di anni 32 al tempo dell’intervento chirurgico) che non avrebbe più potuto continuare a svolgere l’attività lavorativa di autotrasportatore che aveva sempre esercitato.
La Corte d’Appello di Milano, con sentenza 3 dicembre 2019, n. 4794, ha accolto parzialmente la domanda del paziente, aggiungendo alla somma di euro 120.000, l’importo di euro 40.000 a titolo di risarcimento del danno patrimoniale da perdita della capacità lavorativa.
I Giudici di Appello hanno considerato:
- provato sia il reddito derivante dall’attività di autotrasportatore (che aveva sempre svolto il paziente) anche negli anni 2009 e 2010 (mediante produzione delle relative dichiarazioni dei redditi), sia che lo stesso aveva ricevuto una proposta di assunzione come autista nel novembre 2010 (allorché versava in stato di temporanea disoccupazione) che non aveva potuto accettare proprio a causa delle condizioni di salute in cui si era venuto trovare dopo l’intervento chirurgico del settembre precedente;
- che lo stato di disoccupazione del paziente antecedente l’evento – di cui non era provato il carattere volontario – non poteva ridondare a danno dello stesso;
- l‘incapacità lavorativa non era assoluta, in quanto il CTU aveva chiarito che, sebbene non potesse continuare a svolgere l’attività di autotrasportatore (per l’impossibilità di mantenere la stazione seduta per un tempo prolungato e per disturbi minzionali), tuttavia il paziente avrebbe potuto svolgere altri lavori, purché non comportanti posture obbligate protratte o un importante impegno fisico.
Ragionando in tal senso, i Giudici di Appello valutavano equitativamente il danno patrimoniale da perdita della capacità di lavoro ancorandolo “alla permanente invalidità accertata, alle conseguenze derivate anche in termini di danno psichico, e tenuto conto anche dell’età del danneggiato”, ritenendo equo l’importo di euro 40.000 “pari, appunto ad un terzo della liquidazione già operata”.
Il ricorso in Cassazione
Il paziente richiede l’intervento della Cassazione ponendo all’esame il fatto che la Corte di Appello avrebbe mancato di provvedere sulla domanda di risarcimento del danno patrimoniale da mancato guadagno (comprensivo sia dell’omessa retribuzione che dell’omessa contribuzione previdenziale) per perdita della capacità lavorativa specifica, “limitando la propria motivazione alla sola considerazione di una residua potenziale limitata capacità lavorativa generica”; dall’altro lato, censura la illogica negazione della liquidazione del relativo danno, sul rilievo della «ipotetica possibilità» di svolgimento di altra attività, tra l’altro comunque “non confacente con la propria professionalità”.
La Corte di Appello aveva ritenuto provati lo svolgimento, da parte del paziente dell’attività di autotrasportatore per dieci anni (dal 2001 al 2010), la percezione delle retribuzioni (pari ad euro 22.659,60 nell’anno 2009) e il versamento dei contributi previdenziali, nonché lo stato di disoccupazione conseguito all’evento dannoso subìto, con perdita, per il futuro, del reddito precedentemente prodotto. Secondo la tesi del paziente, la Corte anziché procedere alla liquidazione equitativa in proporzione al danno non patrimoniale, avrebbe dovuto liquidare il danno patrimoniale futuro (certo) da lucro cessante per perdita della capacità lavorativa specifica mediante le necessarie operazioni di capitalizzazione, tenendo conto della misura del reddito, del grado di incapacità del 100% e degli anni di vita lavorativa.
Le censure sono fondate.
L’intervento della Cassazione
La S.C. rammenta che in tema di danni alla persona, l’invalidità di gravità tale da non consentire alla vittima la possibilità di attendere neppure a lavori diversi da quello specificamente prestato al momento del sinistro, e comunque confacenti alle sue attitudini e condizioni personali ed ambientali, costituisce un danno patrimoniale ulteriore e distinto rispetto al danno da incapacità lavorativa specifica, il quale, sempre che ne sia accertata la sussistenza, anche in base ad elementi utili ad un giudizio prognostico presuntivo prospettati dal danneggiato, va stimato con valutazione necessariamente equitativa ex art. 1226 c.c. Invece, il distinto danno patrimoniale da lucro cessante, inteso come perdita dei redditi futuri in relazione al lavoro svolto al momento dell’evento dannoso, va provato dal danneggiato mediante la dimostrazione che l’evento lesivo abbia determinato la cessazione del rapporto lavorativo in atto e la perdita, per il futuro, del relativo reddito.
In tale ultimo caso, il reddito perduto dalla vittima (ovverosia: le retribuzioni, comprensive di tutti gli elementi accessori e probabili incrementi, anche pensionistici, che essa avrebbe potuto ragionevolmente conseguire in base allo specifico rapporto di lavoro perduto) costituisce la base di calcolo per la quantificazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, la quale, peraltro, deve tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere, seppur con accresciute difficoltà (il cui peso deve essere adeguatamente considerato), un’altra attività lavorativa retribuita.
La liquidazione della perdita della capacità lavorativa
Ebbene, tale danno deve essere liquidato moltiplicando il reddito perduto per un adeguato coefficiente di capitalizzazione, utilizzando quali termini di raffronto, da un lato, la retribuzione media dell’intera vita lavorativa della categoria di pertinenza, desunta da parametri di rilievo normativi o altrimenti stimata in via equitativa, e, dall’altro, coefficienti di capitalizzazione affidabili, in quanto aggiornati e scientificamente corretti, quali, ad esempio, quelli approvati con provvedimenti normativi per la capitalizzazione delle rendite previdenziali o assistenziali oppure quelli elaborati specificamente nella materia del danno aquiliano.
Questi criteri presuppongono, in linea generale, un rapporto lavorativo in atto al momento dell’evento dannoso. In caso di assenza del presupposto della specifica attualità del rapporto di lavoro al momento dell’illecito (come nel caso concreto), assume rilievo che:
- lo stato di disoccupazione, oltre a non dipendere dalla volontà o dalla colpa del lavoratore (bensì da vicende incolpevoli riguardanti la sua persona o da vicende oggettive di impresa), sia contingente e temporaneo, sussistendo la ragionevole certezza o addirittura la positiva dimostrazione che, se non vi fosse stato l’illecito, il danneggiato avrebbe ripreso lo svolgimento della medesima attività lavorativa o comunque di un’attività confacente alle sue attitudini, idonea a produrre lo stesso reddito.
Ciò significa che il Giudice di merito avrebbe dovuto tenere conto di quanto sopra indicato, invece, in modo contraddittorio, non ha tenuto conto, nella liquidazione del danno da perdita della capacità lavorativa specifica, delle retribuzioni che il danneggiato avrebbe potuto conseguire in base all’attività lavorativa perduta a causa dell’illecito.
La sentenza della Cassazione
Conclusivamente, la Suprema Corte afferma il seguente principio di diritto: “in applicazione del principio dell’integralità del risarcimento sancito dall’art. 1223 cod. civ., la necessità che il danno da perdita della capacità lavorativa specifica sia liquidato ponendo a base del calcolo il reddito che la vittima avrebbe potuto conseguire proseguendo nell’attività lavorativa andata perduta a causa dell’illecito o dell’inadempimento (salva l’esigenza di tener conto anche della persistente – benché ridotta – capacità del danneggiato di procurarsi e mantenere un’altra attività lavorativa retribuita), sussiste non solo nell’ipotesi di cessazione di un rapporto lavorativo in atto al tempo dell’evento dannoso, ma anche nell’ipotesi in cui la vittima versi in stato di disoccupazione, ove si tratti di disoccupazione involontaria e incolpevole, nonché temporanea e contingente, sussistendo la ragionevole certezza o la positiva dimostrazione che il danneggiato, qualora fosse rimasto sano, avrebbe stipulato un nuovo rapporto di lavoro avente ad oggetto la medesima attività lavorativa o comunque una attività confacente al proprio profilo professionale”.
Avv. Emanuela Foligno
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