Le operatrici sanitarie erano indagate per falso in atto pubblico. Secondo l’accusa avrebbero modificato la cartella clinica di una gestante che aveva dato alla luce un bimbo morto

Il Gup presso il Tribunale di Palermo ha rinviato a giudizio due ginecologhe e un’infermiera di una clinica del capoluogo siciliano, accusate di aver falsificato la cartella clinica della gestante dopo la morte di un neonato. La decisione arriva a distanza di oltre 10 anni dal fatto e dopo quattro richieste di archiviazione. Il giudice, inoltre, ha individuato come responsabili civili sia la casa di cura che l’assessorato regionale alla Salute, riconoscendo in capo all’Ente un implicito dovere di controllo e vigilanza sulle strutture convenzionate.

Come ricostruisce Palermo Today era il 2010 quando una donna di 29 anni si era recata presso la struttura sanitaria per dare alla luce il suo primo figlio, ma il bimbo era nato morto e i genitori, sospettando possibili responsabilità per la tragedia, si erano rivolti alla magistratura per denunciare quanto accaduto.

La Procura aveva requisito la cartella clinica, documento informatico di cui sarebbe stata stampata una copia. Secondo l’accusa, però, le indagate avrebbero continuato a compilare e a modificare il file digitale fino a più di due giorni dopo il sequestro. Da li l’ipotesi di reato di falso in atto pubblico.

Se da un lato, dunque, il fascicolo per omicidio colposo a carico dei medici era stato rapidamente archiviato, in quanto non erano state ravvisate colpe da parte del personale sanitario, dall’altro è rimasta in piedi l’inchiesta per il falso.

E per gli inquirenti – riferisce Palermo Today – nella cartella informatica sarebbero stati inseriti dati relativi anche ad un momento precedente alla morte del piccolo, come se vi fosse stata la volontà di nascondere elementi utili alle indagini per l’omicidio colposo.

Uno dei gip che si è occupato della vicenda nel 2016 aveva disposto una perizia informatica, dalla quale era però emerso che “le osservazioni mediche ed infermieristiche erano state inserite nella cartella clinica solamente a parto avvenuto e con un ritardo che, rispetto al momento in cui sarebbero presuntivamente state eseguite, variava da due ore e un quarto a due giorni e mezzo”.

Sulla scia di tale consulenza, il giudice aveva ordinato alla Procura di iscrivere nel registro degli indagati le tre operatrici sanitarie, sottolineando che “integra il reato di falso materiale in atto pubblico l’alterazione di una cartella clinica mediante l’aggiunta di un’annotazione, ancorché vera, in un contesto cronologico successivo e, pertanto, diverso da quello reale” e ancora che “né a tal fine rileva che il soggetto agisca per ristabilire la verità effettuale, in quanto la cartella clinica acquista carattere definitivo in relazione ad ogni singola annotazione”.

La versione della difesa, invece, è che essendo la madre del bambino rimasta in ospedale per due giorni in seguito al sequestro della documentazione clinica, è naturale ed inevitabile che siano stati aggiunti dei dati nella cartella. Dati che peraltro, a detta dei legali delle ginecologhe e dell’infermiera, sarebbero stati poi tutti comunicati tempestivamente alla Procura; quindi, a loro avviso, non vi sarebbe alcun dolo nella condotta delle indagate.

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