Il caso riguarda una controversia legale in merito a un intervento di chirurgia di plastica addominale effettuato senza un adeguato preventivo studio del caso. La questione centrale è la responsabilità del chirurgo e della struttura sanitaria nell’assenza di una valutazione pre-operatoria approfondita, con riflessi sulla correttezza dell’intervento e sugli eventuali danni subiti dal paziente. Il caso solleva anche interrogativi sulle implicazioni legali e sul rispetto delle procedure mediche standard in chirurgia estetica.
L’intervento di chirurgia di plastica addominale
I Medici trascurano le complicanze ascessuali sui problemi urologici e il paziente il 3 luglio 2010, viene sottoposto ad intervento di stent pieloureterale. L’Azienda Ospedaliera Moscati di Avellino, e il Primario di Chirurgia Specialistica, vengono chiamati in causa dai congiunti del paziente deceduto avverso Sentenza Di Corte D’appello Napoli n. 2271/2022 depositata il 23/05/2022. Il paziente, a seguito di laparocele post-operatorio secondario a pregresso intervento di nefrectomia sinistra, era stato ricoverato, il 15 marzo 2010, presso il reparto di Chirurgia Generale e Specialistica dell’azienda ospedaliera, per essere sottoposto, secondo quanto asserito, senza idoneo studio preliminare, a un intervento di chirurgia di plastica addominale, eseguito il 18 marzo 2010.
Il ricovero e il trattamento iniziale
Dimesso in data 25 marzo 2010, il paziente, il giorno 1 maggio 2010, a seguito di lancinanti dolori addominali, si era di nuovo ricoverato presso lo stesso reparto e, nel corso di tale seconda degenza, i sanitari gli avevano praticato solo alcune medicazioni, senza effettuare un’indagine diretta ad appurare l’entità e la natura delle complicanze insorte e, nonostante gli avessero diagnosticato un ascesso addominale, lo avevano dimesso il giorno 8 maggio 2010. Il 25 giugno 2010, il paziente, accusando fuoriuscita di materiale puruloide dalla ferita, si era nuovamente ricoverato nello stesso reparto, ma, in quell’occasione, i sanitari avevano trascurato le complicanze ascessuali, focalizzando la loro attenzione sui problemi urologici, per sottoporlo, il 3 luglio 2010, ad intervento di stent pieloureterale.
La progressione dell’infezione e il decesso
La sepsi perdurava e il 6 luglio 2010, al paziente era stata praticata un’incisione chirurgica dell’ascesso peritoneale, seguita, il 12 luglio 2010, da una TAC addominale, a seguito della quale il paziente era stato operato in via d’urgenza di colectomia totale con ileostomia per peritonite stercorea. Secondo il danneggiato, in conseguenza della tardività dell’operato sanitario e inadeguatezza delle cure prestate, l’infezione era progredita in sepsi generalizzata, con emboli settici polmonari, così inducendo i parenti a trasferirlo presso l’Azienda Universitaria di Careggi in Firenze, ove, constatata la gravità delle condizioni in cui versava l’ammalato, giunto in stato di shock settico, non avevano potuto che registrare il decesso avvenuto l’8 ottobre 2010, a seguito del quale era stata avanzata la richiesta di ristoro dei danni anche non patrimoniali, a titolo personale e successorio.
Il giudizio di merito
Il Tribunale accoglieva sia la domanda principale che le domande di manleva formulate dal Chirurgo sia nei confronti dell’azienda che della società assicurativa, con pronuncia parzialmente riformata dalla Corte di appello che rigettava le domande di manleva e incrementava la liquidazione del danno in favore del danneggiato.
Il Giudice ha osservato:
- – sussisteva la responsabilità solidale della Struttura sanitaria e del chirurgo, che nell’intervento di chirurgia di plastica addominale del laparocele aveva operato come secondo chirurgo della équipe, sia per essere intervenuto sul laparocele senza trattare adeguatamente la idronefrosi da litiasi del monorene, sia perché all’atto delle prime dimissioni e nei successivi ricoveri non erano stati praticati i necessari accertamenti per contrastare l’infezione del laparocele stesso, così determinando un aggravamento della sepsi divenuta irreversibile tanto da determinare il decesso dopo circa sette mesi di notevoli sofferenze del paziente;
- – l’Azienda ospedaliera, in adempimento del contratto collettivo di lavoro con i dirigenti medici, aveva stipulato un’assicurazione con la Faro, che però non copriva le ipotesi di colpa grave, quale quella del chirurgo convenuto in giudizio, il quale aveva disatteso le più elementari linee guida in materia di trattamento chirurgico in elezione del laparocele, nonostante le concomitanti comorbilità da risolvere preventivamente, e omesso di approfondire la natura dell’infezione.
Le doglianze del chirurgo
Il Medico ricorre al vaglio della Corte di Cassazione che però rigetta tutte le doglianze, confermando il secondo grado di merito. Secondo la tesi del chirurgo la Corte di appello avrebbe errato mancando di considerare che il Tribunale aveva accolto la domanda di garanzia nei confronti dell’azienda ospedaliera senza rilevare, rispetto al negozio assicurativo previsto dal contratto collettivo nazionale a carico della struttura e a tutela dei dirigenti medici, la causa di esclusione della copertura consistente nella condotta connotata da colpa grave, sicché tale ultima statuizione, effettuata in secondo grado, avrebbe violato il giudicato interno.
Ed ancora, la Corte di appello avrebbe errato affermando che la copertura assicurativa prevista dal C.C.N.L. non avrebbe comunque potuto operare perché la condotta imputabile all’assicurato aveva integrato un’ipotesi di colpa grave, senza che tale statuizione corrispondesse a un’allegazione dell’azienda ovvero a un motivo di appello della stessa rispetto alla decisione di prime cure che, nell’accogliere la domanda di manleva del medico nei confronti della struttura, nulla aveva rilevato sul punto.
La controversia sull’assicurazione
Ad ultimo contesta le risultanze istruttorie con riferimento alla sussistenza di una colpa grave senza che vi fossero stati quesiti ai CTU incaricati, in prime e seconde cure, e mancando di considerare che l’indicazione all’esecuzione dell’intervento di chirurgia di plastica addominale era stata criticata, dai periti giudiziali, in ragione dell’asserita inadeguatezza della consulenza urologica preoperatoria, ovvero per un’attività non ascrivibile al ricorrente, e che l’insorgenza dell’infezione non era addebitabile o imputabile a quest’ultimo.
Bensì alle affermate deficienze dell’assistenza ambulatoriale e domiciliare del paziente, sicché al deducente non potevano essere imputati l’erroneo approccio diagnostico ascrivibile, in tesi, per un verso alla consulenza urologica – che non aveva sconsigliato il trattamento chirurgico né evidenziato la necessità di trattare preventivamente la litiasi ureterale – e, per altro verso, alla distinta assistenza sanitaria del paziente in corsia e, soprattutto, a domicilio, con cui, in tesi, era stato provocato lo stato infettivo determinante il decesso, fermo, dunque, l’esito positivo degli interventi chirurgici correttamente eseguiti dal ricorrente.
La morte e l’interruzione del processo
Innanzitutto, la S.C. evidenzia che la morte del fratello e madre del de cuius, l’un evento precedente e l’altro successivo alla notifica del ricorso per cassazione. Orbene, non trova applicazione l’istituto dell’interruzione del processo per uno degli eventi previsti dagli artt. 299 e seguenti c.p.c., ergo, una volta instaurato il contraddittorio con la notifica del ricorso, la morte dell’intimato non produce l’effetto in questione neppure se intervenuta prima della notifica del ricorso medesimo presso il difensore costituito nel giudizio di merito, dalla cui relata non emerga il decesso del patrocinato (Cass., 3/12/2015, n. 24635).
Il giudizio in Cassazione
Nel merito cassatorio viene osservato che le prime 4 doglianze non sono ammissibili (Corte di Cassazione, III civile, ordinanza 5 aprile 2025, n. 9006).
La Corte di appello ha prima affermato che, di regola, la responsabilità solidale di struttura e medico è paritaria, e poi ha negato che l’Azienda ospedaliera fosse inadempiente all’obbligo, pacificamente derivante dal C.C.N.L., di assicurare copertura ai propri dirigenti medici, poiché, a prescindere dalla causa di esclusione di quella, prevista nella contrattazione collettiva, data dalla colpa grave, nell’ipotesi sussistente, andava esclusa l’imputabilità alla struttura della messa in liquidazione coatta della società di assicurazione con cui l’azienda medesima aveva stipulato il relativo contratto sicché, nella fattispecie, doveva disattendersi la domanda indicata come di manleva; la principale, e comunque al riguardo autonoma ragione decisoria, è dunque la seconda.
La priorità della copertura assicurativa
Sul punto viene osservato che in base all’art. 258, D.Lgs. n. 209 del 2005, gli “«”attivi a copertura delle riserve tecniche dei rami vita e dei rami danni, che alla data del provvedimento di liquidazione coatta risultano iscritti nell’apposito registro, sono riservati in via prioritaria al soddisfacimento delle obbligazioni derivanti dai contratti ai quali essi si riferiscono!: comma 1 dell’articolo citato, in linea con il precedente comma 4 dell’art. 78, D.Lgs. n. 175 del 2005; inoltre sugli “attivi a copertura delle riserve tecniche dei rami danni si soddisfano, con priorità rispetto agli altri titolari di crediti sorti anteriormente al provvedimento di liquidazione, ancorché assistiti da privilegio o ipoteca: a) gli aventi diritto a capitali o indennizzi per sinistri verificatisi entro il sessantesimo giorno successivo alla data di pubblicazione del provvedimento di liquidazione”.
I diritti derivanti dall’assicurazione
Questo significa che è l’assicurato a dover far valere, nell’assicurazione per conto altrui, come nel caso in parola, i diritti derivanti dal contratto, potendo il contraente esercitarli solo in forza di “espresso consenso” dell’assicurato, profilo su cui nulla risulta dedotto in ricorso. Su ciò nulla di specifico argomenta il gravame in Cassazione, che si limita inammissibilmente ad affermare che l’apertura della procedura concorsuale dell’Assicurazione, dopo il fatto, comporterebbe di per sé l’inadempimento elusivo dell’Azienda ospedaliera nonostante il descritto perfezionamento del negozio assicurativo, e questo legittimerebbe di per sé la sua rivalsa sulla stessa struttura.
La mancata verifica della copertura assicurativa
Al contempo, l’odierno ricorrente neppure dimostra quando e come, nel corso del giudizio di merito, avrebbe allegato, nella sua prospettiva, il differente inadempimento concernente la mancata verifica, in tesi, di persistenza della copertura assicurativa, assumendo, evidentemente, che l’azienda, dopo la manifestazione del dissesto, avrebbe, in fatto, potuto e quindi dovuto stipulare altra polizza utile a coprire la responsabilità.
La clausola “claims made” nell’assicurazione
In tema di assicurazione della responsabilità civile, la Cassazione ribadisce che la clausola claims made non integra una decadenza convenzionale nella misura in cui fa dipendere la perdita del diritto dalla scelta di un terzo, dal momento che la richiesta del danneggiato è fattore concorrente alla identificazione del rischio assicurato, consentendo, pertanto, di ricondurre tale tipologia di contratto al modello di assicurazione della responsabilità civile, nel contesto del più ampio genus dell’assicurazione contro i danni ex art. 1904 cod. civ., della cui causa indennitaria la clausola claims made è pienamente partecipe.
Le censure specifiche della parte ricorrente
Detto ciò, la parte ricorrente svolge diverse censure specifiche quanto alla liquidazione delle fasi di giudizi in ragione delle quali computare gli oneri processuali nei limiti di fascia stabiliti dalla normativa regolamentare invocata; l’affermazione della natura di routine delle questioni assicurative e in questo senso generica, al pari di quelle sulla sproporzione e iniquità delle liquidazioni stesse. Anche tale argomentazione non viene condivisa. Trattasi di una sollecitazione formulata dai controricorrenti alla condanna della parte ricorrente a titolo di responsabilità processuale aggravata, poiché, pur fondandosi essa sulla oggettiva abusività della condotta in lite, richiede un accertamento dell’esercizio, ad opera della parte soccombente, delle sue prerogative processuali con obliterazione della considerazione degli interessi confliggenti in gioco, sacrificandoli ingiustificatamente o sproporzionatamente in relazione all’utilità effettivamente conseguibile, senza però che il giudizio sull’antigiuridicità della condotta processuale possa farsi derivare sempre ovvero automaticamente dal rigetto della domanda o dall’inammissibilità o dall’infondatezza dell’impugnazione.
La posizione dell’Azienda ospedaliera
Al riguardo che l’Azienda ospedaliera ha solo genericamente aderito ha ritenuto che la posizione sia stata quella del rigetto del ricorso proposto, come desumibile sia da quanto affermato in atto introduttivo, sia dalla notifica del controricorso, con la conseguenza che non vi sono oneri di lite da regolare tra la struttura in parola e i controricorrenti.
In conclusione la Cassazione rigetta il ricorso.
Avv. Emanuela Foligno