In questi giorni, grazie alla sentenza N° 2177/2016 della Cassazione, il Consenso Informato è tornato ad animare le cronache e i dibattiti su tutti i siti e le riviste specializzate in materia di sanità, diritto e medicina legale.

Io stesso sono stato sollecitato da diversi clienti medici a fornire un chiarimento in riferimento alla portata della detta sentenza e alle strategie da intraprendere in riferimento alla acquisizione di un consenso che metta al riparo da futuri problemi giudiziari.

Ebbene, prima ancora di spiegare i concetti alla base della sentenza e di descrivere lo “stato dell’arte” in tema di consenso, do la risposta al quesito: non esiste una strategia, un protocollo, un modus operandi, in grado di garantire serenità sulla veridicità del consenso prestato dal paziente. Tutto ciò per alcuni semplici motivi che meritano di essere, però, affrontati una ennesima volta, stante la continua e cangiante produzione giurisprudenziale in tema di rapporto medico-paziente.

Iniziamo allora cercando di capire che cosa è il consenso informato. La miglior definizione di consenso che, a seguito di tutti i miei studi, riesco a dare è quella di un “atto di cortese umanità”. Un atto tramite il quale colui che è depositario del sapere medico, svela a chi non ha la medesima cultura e conoscenza specifica, quale sia la patologia che lo affligge, quali le cause della stessa, quali le possibili scelte di cura, quale la convenienza delle dette scelte così come eventuali svantaggi, quali infine le tecniche pratiche e le possibili conseguenze negative graduandole in base alla loro frequenza o rarità, così come pure una riflessione dovrebbe essere fatta sulle eventuali complicanze potenzialmente verificabili in un contesto di particolare complessità.

Questa definizione, tutt’altro che essere mera poesia teorica, rappresenta il gold standard della informazione medico-paziente, rappresenta, cioè, l’esatta definizione di ciò che gli Ermellini richiedono ai medici affinché la manifestazione di volontà dei pazienti possa essere considerata scevra da vizi.

D’altronde, chiunque quando deve prendere una scelta sulla base di conoscenze che non ha, si rivolge al professionista di quel settore sperando di trovare in lui quella figura di supporto che chiarisca le idee, che sveli la bontà delle nostre future scelte, che aiuti a formare il personale convincimento perché lo stesso possa fondarsi su basi di granitica serenità.

Naturalmente, questo non significa che, come purtroppo è spesso maliziosamente rappresentato dai propri difensori nelle cause mediche, il paziente sia un perfetto “idiota” che non conosce la lingua italiana, non sappia distinguere una siringa da una stilografica, non abbia idea di dove si trovi di chi abbia davanti e del perché un signore in camice bianco gli sta parlando (perdonate l’ironia, ma nel tempo mi è capitato di leggere di tutto sull’argomento “comprendonio” dei pazienti).

Tuttavia, è innegabile che non si possa scegliere alcuna via fra quelle a disposizione senza conoscerne la meta, il percorso, la lunghezza e, quindi, l’appropriatezza. Per comprendere meglio, occorre scorporare il consenso informato in due momenti fondamentali: “la somministrazione delle informazioni” e “l’acquisizione del consenso”. Queste fasi appartengono entrambe ad un dialogo diretto fra le parti… ritorniamo, quindi, al punto di partenza.

Volendole analizzare alla luce delle molteplici pronunce della Cassazione possiamo affermare che la somministrazione delle informazioni  deve essere effettuata da una soggetto qualificato, cioè, da un medico. In caso di interventi chirurgici tale medico dovrebbe essere quello che, nella realtà, opera il paziente ma è ammessa anche la somministrazione da un medico membro della equipe chirurgica.

L’informazione deve essere chiara, con ciò intendendosi che deve essere calibrata esattamente sulla patologia, sulla situazione generale, sull’intervento specifico di “quel” paziente, non essendo ammesse informative generiche che vanno per macro-categoria (ad esempio: consenso a intervento di chirurgia gastrica senza null’altro aggiungere).

Ancora, al paziente deve essere resa nota la patologia accertata o verosimilmente sospettata (o l’iter diagnostico che dovrà seguire ai fini di una definitiva conferma della patologia), le possibili alternative di cura, il tipo di intervento scelto dal medico, i possibili benefici, i relativi rischi, le complicanze conosciute, eventuali condizioni di rischio in riferimento alla situazione pregressa e personale del paziente, le percentuali di successo delle tecniche (evitando se possibile di utilizzare statistiche su base mondiale) e, da ultimo, le conseguenze di una scelta terapeutica non in linea con quella prospettata così come le conseguenze di un “non intervento” sia esso operativo o diagnostico.

Il linguaggio utilizzato deve essere comprensibile senza particolari difficoltà al paziente e, quindi, dovrebbe essere graduato in base al livello culturale dello stesso. Questa affermazione, contenuta in numerose sentenze della Suprema Corte, è da intendersi nel senso che il medico dovrebbe curarsi di appurare che il paziente ha capito chiaramente cosa gli è stato spiegato. Del pari, questo continuo richiamo alla comprensione del paziente, va intesa come una richiesta, rivolta al medico, di aumentare il proprio grado di sensibilità umana, come la richiesta di porsi, nei confronti del paziente, come farebbe con una persona che gli “sta a cuore”, senza lasciare sottesi e senza usare inutili tecnicismi.

Passiamo ora alla seconda “fase”, l’acquisizione del consenso. Per ben comprendere la portata dei precetti giurisprudenziali su questa fase del processo di consenso si può far riferimento alla dottrina sul contratto in generale. Infatti, il consenso, per essere validamente prestato deve essere libero, riconoscibile, non frutto di errore, di violenza o di dolo. Il medico dovrebbe, seguendo ciò che dicono gli Ermellini, accertarsi che il paziente abbia ben compreso ciò che gli è stato spiegato, che sia conscio della patologia di cui soffre, che abbia chiaro l’iter diagnostico da seguire, ovvero, che abbia chiaro il tipo di cura o intervento proposto, che ne abbia compreso i rischi e i benefici, che abbia capito cosa comporta una diversa scelta, ovvero, il non intervenire o indagare per nulla.

Solo una volta che si siano effettuate tali verifiche, il consenso potrà dirsi valido e realmente informato.

Chiarito ciò che rappresenta, per la giurisprudenza, un buon consenso informato, ritorniamo alla importanza della sentenza della Cassazione n°2177/2016. In essa, viene affermata la responsabilità di un medico per un intervento di chirurgia refrattiva che non ha dato i risultati sperati. La particolarità risiede nel fatto che, anche se non sono riscontrabili profili di negligenza o imperizia essendo stato l’intervento eseguito realmente bene, i Giudici di Piazza Cavour, hanno ritenuto fondata la doglianza della paziente in riferimento a una incompleta informazione per essere state fornite la maggior parte delle notizie mediante la somministrazione di un depliant informativo.

A nulla sono valse le giustificazioni del medico in questione, a nulla è valso che la signora avesse già subito simile intervento quindi fosse già al corrente delle tecniche e di tutte le informazioni, a nulla sono valse le sentenze di rimo grado e di appello che avevano mandato il medico esente da ogni colpa.

Insomma, una condanna comminata sulla base del solo consenso, ritenuto evidentemente, “non” abbastanza informato.

Ma non dovrebbe esservi scalpore o sorpresa alcuna. Non dovrebbero esservi tanti commenti stupiti, tante paure, tanti dubbi. La sentenza in questione non dice nulla che non sia stato già detto o affermato, non aggiunge neppure una virgola al panorama della giurisprudenza sul consenso.

Al più, costituisce un ulteriore faro su ciò che è richiesto ai medici… recuperare, costruire, avviare, un rapporto umano con il paziente. Un dialogo vero, nel quale dal confronto e dalla informazione nasca una volontà che non potrà mai essere messa in dubbio o contraddetta. Un vero e proprio “atto di cura” nei confronti di chi non ha gli strumenti per capire e comprendere ed è, giocoforza, messo nella condizione di affidare il proprio benessere, la propria salute, la propria vita in mani altrui.

Visto sotto questa luce il consenso diventa, non un atto burocratico, non un permesso da acquisire come si acquisisce una licenza dalla P.A., ma un atto di etica.

Ecco cosa vogliono gli Ermellini… ecco cosa i medici dovrebbero fare!

Resta una legittima domanda. I Giudici pretendono che tutta questa serie di eventi sia testimoniata da una cosa soltanto… la firma del paziente. Ma come potranno i medici dimostrare che il dialogo, che la loro etica, che la cura riservata al paziente in questa fase preliminare, che il consenso prestato con la sottoscrizione sia perfettamente rispondente ai dettami della giurisprudenza?

Sarà mia cura rispondere a questa domanda a breve, stante lo spazio già occupato e la volontà di non tediarVi oltre. La soluzione comunque c’è ed è definitiva.

                                                                                                                             Avv. Gianluca Mari

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2 Commenti

  1. salve,
    riguardo al consenso informato , ho un contenzioso civile medico in atto, in materia di prescrizione , da quando parte la prescrizione del danno da mancato consenso informato ? Dalla CTU ? indirettamente dai certificati medici ?

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