Danno alveolare secondario e decesso del paziente (Cassazione civile, sez. III – 07/07/2023, n. 19290).
Il paziente, trovato dalla madre nell’abitazione riverso a terra privo di conoscenza, veniva dichiarato dal Medico del 118 in “asistolia”, e giunto al Pronto Soccorso, gli veniva praticata la intubazione orotracheale, ma a causa della mancata ripresa dell’attività cardiaca sopraggiungeva il decesso. L’autopsia evidenziava un danno alveolare diffuso secondario a polmonite chimica da induzione di materiale alimentare.
I congiunti, contestavano al Medico di famiglia di essere consapevole della situazione pregressa del paziente, segnata dal continuo ripetersi di episodi infettivi, di avere erroneamente valutato lo stato di malessere accusato dal paziente; quanto, invece, alla Dott.ssa del 118, di avere omesso di effettuare le manovre necessarie a garantire la pervietà delle vie aeree, ed in particolare di non avere provveduto alla intubazione orotracheale, alla quale il giovane era stato sottoposto solo al suo arrivo al Pronto Soccorso.
Il Tribunale di Firenze respingeva la domanda; successivamente anche la Corte di Appello respingeva il gravame.
Nello specifico, la Corte territoriale respingeva sia il motivo di gravame con cui gli appellanti si dolevano che il Tribunale, facendo proprie le conclusioni del C.T.U., qualificava come “morte improvvisa” il decesso del paziente, senza evidenziare che era da ricollegare ad una insufficienza cardio-respiratoria acuta derivata da un quadro emorragico massivo a sede endoalveolare, sia la ulteriore doglianza con la quale contestavano le argomentazioni del C.T.U. e del Tribunale sul quadro anamnestico e sulla riconosciuta correttezza dell’operato del Medico di famiglia.
Gli appellanti, in sintesi, sostenevano lo stato ancora vitale del giovane al momento in cui la Dott.ssa del 118 era giunta presso l’abitazione. La Corte territoriale, invece, ha puntualizzato che il C.T.U. non aveva concluso che il paziente fosse ancora in vita al momento del ritrovamento da parte dei genitori, ma piuttosto che non poteva essere indicata l’epoca della morte. Seguendo tale ragionamento i Giudici di appello desumevano che qualunque attività rianimatoria fosse stata posta in essere non avrebbe potuto cambiare le condizioni del giovane, che da tempo aveva ormai perso ogni segno di vitalità.
Evidenziano i ricorrenti che la Corte d’appello avrebbe dato rilevanza a prove indirette, piuttosto che a quelle dirette che avevano valore di confessione, quale il comportamento della Dott.ssa del 118 che aveva palesemente considerato il paziente vivo e come tale meritevole di ricevere le manovre di rianimazione previste dal protocollo della USL. Difatti, dopo circa 30 minuti dall’accesso in P.S. i Medici avevano dichiarato l’exitus, di talchè, sempre secondo la tesi dei congiunti, vi sarebbe stato travisamento della prova.
La Corte dà atto che su quest’ultima censura, sono intervenute le Sezioni Unite con due ordinanze interlocutorie (Cass., n. 8895/2023 e Cass., n. 11111/23). Tuttavia, i ricorrenti non denunciano una assoluta impossibilità logica di ricavare dagli elementi istruttori il convincimento, né tanto meno evidenziano il carattere decisivo dell’errore interpretativo in cui sarebbe incorso il Giudice di appello, ma si limitano a contrapporre alla valutazione delle prove una diversa lettura, così configurando una mera critica alla ricostruzione della vicenda fattuale, non consentita in sede di legittimità.
In particolare, i ricorrenti insistono, sul fatto che, essendo stata la morte dichiarata alle ore 14,35, dopo circa trenta minuti di pratiche di rianimazione, sarebbe errato ritenere che il giovane fosse già deceduto prima dell’intervento del 118, senza valutare altri elementi probatori che deponevano, invece, per l’esistenza in vita del giovane all’arrivo degli operatori del 118.
Le doglianze non colgono nel segno poiché i Giudici di secondo grado non si sono limitati a valutare le circostanze fattuali , ma hanno analizzato tutta la documentazione sanitaria prodotta e la espletata CTU, addivenendo a conclusioni coerenti e plausibili.
La circostanza che il giovane fosse già deceduto al momento in cui sono arrivati gli operatori del 118 viene chiarita dalle considerazioni svolte dal C.T.U. che – sulla scorta di dati obiettivi, quali la cianosi, la midriasi, l’assenza di respiro e di battito cardiaco, riscontrati anche dalla Dott.ssa del 118, che, nella telefonata effettuata alla centrale operativa del 118, aveva parlato di “asistolia” e riferito di avere intubato il ragazzo e di avergli praticato due iniezioni di adrenalina – ha confermato che l’arresto cardio-respiratorio era ormai in atto da tempo, “così da rendere del tutto inefficace qualsiasi manovra respiratoria”.
Non rileva, quindi, il fatto che la morte sia stata dichiarata alle ore 14,35, perché ciò non può far escludere che possa essere accertato, come è avvenuto nel caso di specie, che il decesso fosse intervenuto in un momento anteriore.
E pertanto risulta corretto quanto affermato in appello, ovverosia che “l’onere della prova delle condizioni vitali e dell’eziologia letale concorrente rappresentata dalla condotta commissiva od omissiva ascritta dagli attori al medico del 118 si conferma non assolto”.
Così argomentando, i Giudici di merito hanno fatto corretta applicazione del principio secondo cui nel risarcimento del danno da responsabilità medica, è onere del paziente dimostrare l’esistenza del nesso causale, provando che la condotta del sanitario è stata, secondo il criterio del “più probabile che non”, causa del danno, sicché, ove la stessa sia rimasta assolutamente incerta, la domanda deve essere rigettata.
In conclusione, il ricorso viene dichiarato inammissibile.
Avv. Emanuela Foligno
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