Per la Cassazione la dequalificazione professionale non è condizione sufficiente ai fini della configurabilità di una ipotesi di mobbing

Ai fini della configurabilità di una ipotesi di “mobbing”, non è condizione sufficiente l’accertata esistenza di una dequalificazione o di plurime condotte datoriali illegittime, essendo a tal fine necessario che il lavoratore alleghi e provi, con ulteriori e concreti elementi, che comportamenti datoriali siano il frutto di un disegno persecutorio unificante, preordinato alla prevaricazione

Lo ha ribadito la Cassazione con l’ordinanza n. 29767/2020 pronunciandosi sul ricorso di una lavoratrice che si era vista respingere dalla Corte di appello la domanda di risarcimento del danno biologico per mobbing proposta nei confronti del Comune datore di lavoro.

In primo grado il Tribunale aveva condannato l’Amministrazione a pagare alla donna, che aveva il profilo professionale di funzionario e ricopriva all’interno dell’Ente l’incarico di responsabile del servizio personale e organizzazione, la somma di curo 18.927,08.

Il Collegio territoriale, dopo aver ripercorso la giurisprudenza in materia di mobbing, aveva accolto l’appello in quanto l’istruttoria espletata non aveva provato la sussistenza di una condotta dolosamente preordinata alla vessazione ed emarginazione della dipendente, essendo emerse circostanze che, eventualmente, erano suscettibili di configurare una mera difficoltà di rapporti con amministratori dell’Ente o superiori gerarchici.

In difetto di prova di una esplicita volontà del datore di lavoro di emarginare il dipendente in vista di una sua espulsione dal contesto lavorativo o, comunque, di un intento persecutorio, non poteva dunque ritenersi provata la responsabilità della convenuta ex art. 2087 cod. civ.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte la ricorrente, dopo aver ricordato che condotta significativa del mobbing è il demansionamento, contestava la nozione di demansionamento posta dalla Corte d’Appello a fondamento della propria decisione, e cioè che lo stesso sussisterebbe solo se il dipendente fosse rimosso dalla propria posizione lavorativa, o privato del tutto delle mansioni svolte. Ed infatti – assumeva la ricorrente – il demansionamento sussisterebbe anche a fronte di una riduzione o sottrazione delle mansioni, o di progressivo depauperamento delle mansioni e dei compiti più qualificanti e operativi.

I Giudici Ermellini hanno ritenuto il motivo del ricorso inammissibile.

È noto – hanno ricordato dal Palazzaccio –  “che il mobbing rientra fra le situazioni potenzialmente dannose e non normativamente tipizzate e che, secondo quanto affermato dalla Corte costituzionale e recepito dalla giurisprudenza di questa Corte, esso designa un complesso fenomeno consistente in una serie di atti o comportamenti vessatori, protratti nel tempo, posti in essere nei confronti di un lavoratore da parte dei componenti del gruppo di lavoro in cui è inserito o dal suo capo, caratterizzati da un intento di persecuzione ed emarginazione finalizzato all’obiettivo primario di escludere la vittima dal gruppo”.

Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro rilevano: a) la molteplicità dei comportamenti a carattere persecutori o, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio.

Si tratta di elementi che il lavoratore ha l’onere di provare in applicazione del principio generale di cui all’art. 2697, cod. civ., e che implicano la necessità di una valutazione rigorosa della sistematicità della condotta e della sussistenza dell’intento emulativo o persecutorio che deve sorreggerla.

La giurisprudenza di legittimità ha chiarito che l’elemento qualificante del mobbing, che deve essere provato da chi assume di avere subito la condotta vessatoria, va ricercato non nell’illegittimità dei singoli atti bensì nell’intento persecutorio che li unifica, sicché la legittimità dei provvedimenti può rilevare indirettamente perché, in difetto di elementi probatori di segno contrario, sintomatica dell’assenza dell’elemento soggettivo che deve sorreggere la condotta, unitariamente considerata; parimenti la conflittualità delle relazioni personali all’interno dell’ufficio, che impone al datore di lavoro di intervenire per ripristinare la serenità necessaria per il corretto espletamento delle prestazioni lavorative, può essere apprezzata dal giudice per escludere che i provvedimenti siano stati adottati al solo fine di mortificare la personalità e la dignità del lavoratore.

Nel caso in esame,  la Corte d’Appello aveva rigettato la domanda della lavoratrice ponendo a fondamento della decisione la mancanza dell’intento persecutorio, che costituisce elemento necessario per la sussistenza del mobbing. Tale statuizione che costituiva la ratio decidendi della sentenza non era stata specificamente censurata dalla ricorrente, che si era limitata a dedurre la sussistenza di demansionamento quale fattore di per sé stesso integrante mobbing.

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