Per la Cassazione, prospettare una denuncia per danni, anche se al fine di ottenere un atto illegale, non integra gli estremi del reato previsto dall’art. 336 del codice penale

Con la sentenza n. 13156/2020 la Suprema Corte di Cassazione si è pronunciata sul ricorso di un uomo avverso la sentenza della Collegio di appello che, in riforma della sentenza di primo grado, lo condannava per il reato di minaccia ai sensi dell’art. 336 del codice penale. L’imputato, nello specifico, era accusato di aver ripetutamente intimidito un veterinario della Asl costringendolo, a fronte di una denuncia per danni, ad emettere un certificato d’idoneità all’alimentazione umana di un bovino da lui macellato senza il rispetto delle procedure di legge.

Nell’impugnare la pronuncia di secondo grado il ricorrente eccepiva di aver agito nella convinzione del carattere dovuto dell’atto da lui richiesto al pubblico ufficiale e, quindi, della legittimità dell’iniziativa giudiziaria da lui prospettata. Sosteneva poi, richiamando la giurisprudenza di legittimità, che la prospettazione di una denuncia all’autorità giudiziaria non costituisca in sé minaccia od oltraggio, tanto più quando si accompagni alla specificazione dell’oggetto e sia espressa in termini civili benché risentiti.

I Giudici Ermellini hanno effettivamente ritenuto di aderire alle argomentazioni proposte, accogliendo il ricorso e annullando, senza rinvio, la sentenza impugnata, perché il fatto non sussiste.

Affinché possa ritenersi sussistente il delitto di cui all’art. 336 del codice penale – sottolineano dal Palazzaccio –  l’idoneità della minaccia dev’essere valutata con giudizio ex ante, tenendo conto delle circostanze oggettive e soggettive del fatto e dovendosi avere riguardo alla potenzialità costrittiva del male ingiusto prospettato; a nulla rileva, invece, che, in concreto, i destinatari non siano stati intimiditi, né che il male minacciato non si sia realizzato o non sia realizzabile, a meno che, in quest’ultima ipotesi, ciò valga a privare la minaccia di qualsiasi parvenza di serietà.

Nel caso specifico, l’idoneità costrittiva sul pubblico ufficiale della condotta tenuta dal ricorrente, risultava insuperabilmente dubbia. L’imputato, infatti, si sarebbe limitato, dapprima di persona e successivamente per telefono, a prospettare al veterinario della Asl di intraprendere nei suoi confronti un’azione risarcitoria dinanzi al giudice civile.

La Corte di appello aveva ritenuto decisiva, ai fini del giudizio di colpevolezza, la malafede dell’imputato, ovvero la consapevolezza dell’illegalità dell’atto da lui richiesto a quel pubblico ufficiale e, dunque, la coscienza dell’infondatezza della propria pretesa. Questa, tuttavia, deve ritenersi una valutazione logicamente successiva a quella sulla valenza intimidatrice della condotta e che può avere rilevanza ai fini dell’accertamento del dolo.

L’idoneità del comportamento dell’agente a coartare la libertà del pubblico operatore nello svolgimento del suo servizio, invece – chiariscono i Giudici di Piazza Cavour –  dev’essere valutata esclusivamente su base oggettiva, in ragione, cioè, delle modalità e circostanze dell’azione.

Sulla base di tali premesse, per la Suprema Corte la prospettazione di una denuncia per danni non riveste di per sé alcuna capacità costrittiva della libertà di determinazione e di azione dell’agente pubblico a cui venga rivolta, pur quando la stessa sia palesemente infondata, e, anzi, tanto più allorquando sia tale e di ciò il destinatario sia consapevole.

La redazione giuridica

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