Confermato il principio secondo cui il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento (Corte di Cassazione, I civile, ordinanza 9 dicembre 2024, n. 31555).
Il Tribunale di Torino ha rigettato la domanda di mantenimento avanzata da una donna e ha dichiarato, invece, il suo diritto alla percezione di un assegno alimentare posto a carico del padre nella misura di 350 euro mensili.
La Corte di appello di Torino (sent. 437/2023) ha confermato il primo grado e la questione arriva in Cassazione.
Il padre della donna censura la Corte d’appello per avere ritenuto che il riconoscimento del diritto agli alimenti fosse subordinato alla incolpevole incapacità di provvedere al proprio sostentamento (elemento soggettivo) e non, come previsto dall’art. 438 c.c., alla impossibilità di provvedere al proprio sostentamento (elemento oggettivo) e che la disponibilità di ingenti somme non comportasse l’insussistenza dello stato di bisogno e la possibilità di provvedere al proprio mantenimento.
La Cassazione dà continuità all’orientamento per cui il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno
Viene data continuità al consolidato orientamento secondo cui il diritto agli alimenti è legato alla prova non solo dello stato di bisogno, ma anche della impossibilità di provvedere, in tutto o in parte, al proprio sostentamento mediante l’esplicazione di un’attività lavorativa. Quindi, se il richiedente non provi la propria invalidità al lavoro per incapacità fisica o l’impossibilità, per circostanze a lui non imputabile, di trovarsi un’occupazione confacente alle proprie attitudini e alle proprie condizioni sociali, la relativa domanda deve essere rigettata (Cass.21572/2006).
Inoltre, è stato precisato (Cass. 11889/2015; Cass. 33789/2022) che lo stato di bisogno deve essere connotato da una oggettiva impossibilità di soddisfare i bisogni primari con proprie fonti o attingendo anche da una rete solidale, per quanto non giuridicamente vincolante e però sostanzialmente fruibile e continuativa e deve essere valutato in relazione alle effettive condizioni dell’alimentando, tenendo conto di tutte le risorse economiche di cui il medesimo disponga, compresi i redditi ricavabili dal godimento di beni immobili in proprietà o in usufrutto, e della loro idoneità a soddisfare le sue necessità primarie.
Condiviso quanto sopra, la Cassazione dà atto che sulla scorta dell’accertamento peritale effettuato in primo grado e degli elementi probatori acquisiti, ha fatto corretta applicazione dei su esposti principi, e, dopo aver dato conto delle complesse patologie fisiche da cui era affetta la donna e della situazione anche psicologica in cui si trovava, ha affermato che ella non era, allo stato, concretamente in grado di attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa, seppur astrattamente compatibile con la propria formazione universitaria e con le proprie condizioni e limitazioni fisiche (ad esempio riprendendo le traduzioni a domicilio).
Lo stato di bisogno della donna
In particolare, la Corte di secondo grado ha condiviso la valutazione effettuata dal Tribunale, secondo cui la malattia rara (displasia neuronale viscerale, interessante il tubo digerente, con sintomatologia insorta nell’infanzia, con stipsi ostinata) da cui è affetta la figlia del ricorrente aveva comportato, a partire dal 2013, interventi chirurgici e cure costanti.
Era inoltre emersa, pur a fronte di una pregressa istruzione universitaria ed attività lavorativa come traduttrice per alcune case editrici e privati, una attuale (dal 2013 ad oggi) situazione di ritiro sociale, assenza di occupazione, continua necessità di dedicarsi a specifiche manovre fisiologiche derivanti dalla patologia, con impossibilità di uscire di casa se non per poco tempo ed in dipendenza dalle condizioni fisiche del momento; la signora è risultata di umore deflesso, con note ansiose, affetta da attendibile disturbo alimentare in magrezza grave. Il consulente ha riconosciuto alla stessa una riduzione della capacità lavorativa generica, in rapporto ai quadri morbosi coesistenti, del 67%.
Sulla base di tali risultanze, la Corte di merito ha quindi concluso ritenendo sussistente, quantomeno ad oggi, di fatto, uno stato di bisogno dovuto ad una incolpevole capacità di provvedere al proprio sostentamento.
Incolpevole incapacità di provvedere al proprio sostentamento
Il ragionamento dei Giudici di appello è stato corretto in quanto con il termine “incolpevole incapacità di provvedere al proprio sostentamento” la Corte di merito non ha inteso valorizzare un elemento soggettivo, ma proprio, invece, l’impossibilità concreta della donna, allo stato, di attivarsi per reperire (e per mantenere) una occupazione lavorativa, così come previsto dall’art. 438 c.c.
Al riguardo è stato evidenziato che la donna non ha più lavorato, come traduttrice a domicilio, solo da quando le sue condizioni di salute sono peggiorate e ha subito una serie ravvicinata di interventi chirurgici e non ha basato il proprio convincimento sulla sola sussistenza di una riduzione parziale della capacità lavorativa generica, ma sulla complessiva situazione fisica e psichica riscontrata dal C.T.U. e valutata all’attualità, ed anzi ha auspicato che l’alimentanda trovi un supporto in quelle difficoltà collaterali (ad esempio nell’alimentazione, che la stessa ha riferito essere attualmente solo liquida), anche di natura verosimilmente psicologica, che le hanno reso sino ad oggi concretamente non spendibile neppure quella residua capacità lavorativa alla stessa riconosciuta dal consulente.
In conclusione, il ricorso viene complessivamente rigettato.
Avv. Emanuela Foligno