In Appello condannata la ginecologa per non avere eseguito con tempestività il taglio cesareo alla partoriente in occasione del parto del 23 aprile 2016, determinando gravissime lesioni al neonato che decedeva il 3 giugno 2016. Tuttavia, la Corte di Cassazione mette in discussione la responsabilità della ginecologa.
La vicenda
La Corte di Appello di Caltanissetta, in riforma della sentenza di assoluzione per non aver commesso il fatto pronunciata dal G.U.P. presso il Tribunale di Enna, ha dichiarato la ginecologa, in servizio presso l’Ospedale Umberto I di Enna, colpevole per omicidio colposo e, concesse le attenuanti generiche, l’ha condannata alla pena di mesi quattro di reclusione, ridotta per il rito, oltre al pagamento delle spese processuali e al risarcimento danni in favore dei genitori costituiti parti civili.
Alla ginecologa è stato contestato che, con condotta negligente, imprudente ed imperita, apprestando assistenza inadeguata ed inefficiente nei confronti della partoriente e non eseguendo con tempestività il taglio cesareo il 23/4/2016, concorreva nel determinare gravissime lesioni personali al nascituro consistite in “grave encefalopatia ipossico ischemica causata da sofferenza fetale acuta”, determinandone il decesso in data 3/6/2016.
In particolare, la ginecologa, stabilendo di eseguire prima il parto di un’altra donna (Ca.Mi.), disponeva che nessuno dei presenti si allontanasse dalla sala operatoria per prestare assistenza al parto della paziente (vittima dell’evento), gestito da altro medico, dr.ssa Te., malgrado quest’ultima le avesse rappresentato l’urgenza di praticare il taglio cesareo.
Venivano imputati anche il medico di guardia dott. La. e la dott.ssa Te. (accusati, rispettivamente, il primo di aver omesso, in qualità di responsabile della guardia, di aver organizzato il personale medico e paramedico e di aver avallato le disposizioni della imputata e la seconda di non avere chiamato tempestivamente l’anestesista reperibile) giudicati separatamente, avendo l’imputata scelto di procedere con rito abbreviato.
Il GUP del Tribunale assolveva l’imputata rilevando:
- che l’evento fosse attribuibile all’errore terapeutico della dott.ssa Te., che aveva gestito il caso pur non essendo in servizio e non aveva chiamato l’anestesista reperibile alle 00.20, dopo aver constatato l’impossibilita dell’altra equipe medica di occuparsi della vittima;
- che la tempestiva chiamata dell’anestesista reperibile, ove avvenuta alle 00.20, avrebbe permesso l’esecuzione del cesareo all’1.10, anziché all’1.35, e quindi tempestivamente, posto che secondo il consulente del PM, la sofferenza fetale non si era manifestata fino a quell’ora, come era rilevabile dal tracciato, e quindi si era presumibilmente verificata nel lasso di tempo intercorso tra l’1.10 e l’1.35, orario in cui il bimbo era nato;
- la colpa della imputata comunque poteva qualificarsi come colpa lieve, poiché la stessa era stata rassicurata sulle condizioni della vittima e nel contempo stava dedicando il suo impegno nel soccorso di altra paziente, la cui situazione era caratterizzata da gravi difficoltà e urgenza. Quindi non poteva parlarsi di arbitrarietà nella scelta di concludere l’intervento sulla paziente gravemente obesa, considerato anche il fatto che il tracciato del suo neonato era allarmante già dalle 22.30, mentre il nascituro della vittima non presentava segni di sofferenza; quindi il fattore di rischio della vittima, legato al fattore tempo delle tre ore trascorse dalla dilatazione completa, era meno allarmante rispetto all’altro caso della partoriente gravemente obesa.
Il ricorso in Appello
La decisione del GUP viene appellata dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Enna che lamenta decisione acritica e immotivata circa le valutazioni dei Consulenti della difesa, senza motivare in ordine alla loro esattezza.
Secondo il Procuratore, l’imputata, data la superiorità gerarchica, riferiva alla dott.ssa Te. che si sarebbe occupata del parto della vittima solo dopo il termine di quello della partoriente gravemente obesa, e aveva ordinato al personale di non lasciare la sala operatoria perché si sarebbe proceduto al cesareo solo in caso di insuccesso di quello naturale.
Relativamente alla priorità tra i due parti e all’ordine dato dalla imputata di non lasciare la sala operatoria, il GUP avrebbe errato aderendo alle considerazioni della difesa, secondo cui era indiscutibile la priorità della partoriente obesa nello svolgere il parto per criticità legate alle sue condizioni fisiche. Tale ragionamento sarebbe smentito dagli atti, da cui si evince che non emergevano rischi per il benessere del feto.
Relativamente ai tempi di esecuzione del cesareo della vittima, pur non esistendo unanimità di vedute nelle linee guida (i tempi entro cui effettuare il cesareo vanno valutati caso per caso), il Procuratore sostiene che il superamento delle tre ore per il parto naturale e i due collassi avuti sarebbero indicativi dell’urgenza di eseguire il cesareo.
La condotta dell’imputata, in qualità di medico più anziano e facente funzioni del primario, consistita nell’aver ordinato al personale di non allontanarsi dalla sala in cui si svolgeva il parto dell’altra donna, nonostante la dott.ssa Te. avesse rappresentato l’urgenza del parto della vittima, avrebbe concorso nel causare il ritardo nello svolgimento del cesareo della predetta, da cui è derivato il decesso per complicazioni fetali.
La decisione dei giudici di secondo grado
La Corte d’Appello ha accolto il gravame del Procuratore ritenendo gravemente negligente il comportamento della ginecologa imputata che doveva promuovere attività collaborative volte alla più ampia tutela del paziente e dall’effettuare una valutazione bilanciata tra urgenze all’interno del nosocomio, individuando i soggetti responsabili dell’equipe.
Ciò che si contesta all’imputata è non aver assunto iniziative per evitare l’impasse pericoloso per la vittima. Secondo la Corte, dunque, la condotta della imputata si è frapposta alle iniziative della dott.ssa Te. che potevano consentire di gestire diversamente le urgenze, pretendendo invece che tutto il personale sanitario fosse impegnato nel suo intervento e concentrandosi sull’urgenza che già stava seguendo.
Il ricorso in Cassazione dell’imputata
L’imputata ricorre per Cassazione dolendosi della mancata “motivazione rafforzata” riguardo l’importanza del proprio monito al personale presente in sala operatoria di non allontanarsi in considerazione della imminenza di un parto cesareo di una paziente che risultava problematica, essendovi già un tracciato critico alle 22.30; peraltro in considerazione del fatto che le condizioni della vittima e del feto non destavano allarme, al contrario di quelle dell’altra donna. Sempre secondo la tesi dell’imputata la Corte di Appello non avrebbe potuto affermare, senza alcun elemento di prova che vi fossero chiari indici di sofferenza fetale della vittima, costituendo questa conclusione nozione presupponente l’applicazione di leggi scientifiche di cui i giudici di merito non erano edotti.
La S.C. evidenzia che all’imputata è stata contestata una condotta di tipo commissivo, ossia quella di aver stabilito di eseguire prima il parto della paziente gravemente obesa, disponendo che nessuno dei membri dell’equipe sanitaria si allontanasse per prestare assistenza alla vittima. In considerazione di ciò non rileva (trattandosi appunto di reato commissivo) indagare sui profili tipici del reato omissivo colposo. Conseguentemente, la ricostruzione del nesso causale attiene ai canoni della causalità commissiva, attinente ad un collegamento reale, e non meramente ipotetico, tra azione ed evento (senza, cioè, il noto meccanismo di “aggiunta mentale” della condotta doverosa omessa).
Il nesso causale
Ergo, sotto il profilo della colpa, deve accertarsi se la valutazione della tempistica del parto cesareo della vittima fosse stata compiuta o meno correttamente, anche in rapporto alla difficoltà che presentava l’altro parto in corso, e se l’impiego dell’infermiere addetto alla predisposizione della seconda sala operatoria fosse necessario in considerazione della peculiarità del predetto caso. Una volta compiuto il giudizio in ordine all’elemento soggettivo, occorre dunque accertare, sotto il profilo della causalità, la sussistenza del collegamento causale diretto tra la condotta rimproverata alla ginecologa imputata, ossia aver mantenuto a disposizione dell’altro intervento anche l’infermiere addetto alla sala operatoria, e l’evento verificatosi.
Ebbene, la motivazione svolta della Corte di Appello non ottempera ai requisiti delineati dalla giurisprudenza, progressivamente affermatasi, per assolvere a quell’obbligo di motivazione rafforzata, atta in quanto tale a soddisfare il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio dettato all’art. 533 c.p.p.
Gli indici di allerta
La Corte nissena fonda il giudizio di responsabilità sulla considerazione che gli indici di allerta del parto della vittima (le tre ore trascorse dal travaglio e gli episodi di collasso della gestante) erano stati rappresentati alla imputata la quale si sarebbe dovuta rendere conto dell’urgenza di procedere al parto, nonostante le rassicurazioni della collega dott.ssa Te. che i parametri delta madre e del feto erano ancora normali. La Corte di appello ritiene che “questo dato non avrebbe potuto ragionevolmente rassicurare uno scrupoloso sanitario”, considerando mere “discettazioni nominalistiche” sia le linee guida che le questioni, affrontate dal Giudice di primo grado, se gli indici fossero di allerta, urgenza o emergenza.
Tuttavia, dette considerazioni non sono idonee a confutare i precisi passaggi motivazionali contenuti nella sentenza di primo grado, che, riportando testualmente i punti salienti delle consulenze in atti, evidenziando che, secondo il quadro tracciato dai CT del PM, nel caso della vittima vi era una urgenza in corso ma non una emergenza: si chiarisce, sul punto, che se vi è pericolo per la sopravvivenza del feto e della madre, si parla di emergenza in quanto sono compromessi i parametri vitali e occorrono interventi immediati per scongiurare il pericolo di vita. Nel caso non vi era una situazione di emergenza, poiché i parametri vitali della madre e del bambino erano da considerarsi discreti: solo se si fosse verificata sofferenza fetale (che pacificamente non era stata riscontrata) l’intervento si sarebbe dovuto eseguire immediatamente.
Motivazione assertiva e apodittica
La Corte territoriale fornisce, sul punto, una motivazione del tutto assertiva e apodittica, insufficiente a chiarire, al di là di ogni ragionevole dubbio, se la decisione di attendere, e di utilizzare il personale sanitario nella esecuzione del parto della paziente obesa, si possa comunque ascrivere ad un grado di colpa grave, configurabile se ed in quanto le peculiarità del caso concreto valutate alla luce del materiale istruttorio acquisito avrebbero comunque suggerito e imposto una anticipazione dei tempi di intervento della vittima. Né, inoltre, risulta sufficientemente indagato e affrontato il tema, oggetto di contestazione, della sovrabbondanza del personale sanitario impiegato nel parto dell’altra paziente.
Gli Ermellini osservano che, sia che si ritenga che le linee guida contengono mere raccomandazioni, dal contenuto generico e defettibile, che sta al sanitario valutare come adeguate al caso specifico e/o adattare alle particolarità dello stesso; sia che le si consideri strutturate in varia guisa e talvolta quindi come vere e proprie regole cautelari rigide, altre volte come vere e proprie regole cautelari elastiche, quel che deve implicitamente essere messo a fuoco è l’esistenza di uno spazio valutativo affidato per intero al sanitario, che in solitudine è chiamato a individuare l’agire doveroso.
Osserva quindi la S.C. che “nell’apprezzamento del grado della colpa del sanitario, deve tenersi conto della natura della regola cautelare la cui inosservanza gli si rimprovera, avendo incidenza sulla maggior o minore esigibilità della condotta doverosa che egli possa limitarsi a conoscere la regola ed applicarla o, al contrario, sia chiamato a riconoscere previamente le condizioni che permettono di individuare le direttive comportamentali, che rendono doverosa l’adozione della misura, che consentono di individuare quale misura adottare“.
Le considerazioni esposte conducono all’annullamento della sentenza impugnata.
Avv. Emanuela Foligno