Trattamenti ayurvedici per curare il tumore provocano il decesso anticipato

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La Suprema Corte conferma la responsabilità del medico per il decesso anticipato dell’uomo convinto a rifiutare l’intervento chirurgico e le terapie tradizionali chemioterapiche per sottoporsi a trattamenti ayurvedici e lo condanna per comportamento processuale scorretto (Cassazione Civile, sez. III, 15/03/2024, n.7094).

La vicenda

Il Tribunale penale di Belluno dichiarava il medico colpevole del delitto di omicidio colposo in danno del paziente affetto da “adenocarcinoma rettale infiltrante” dal novembre 2002, che si era sottoposto alle sue cure dal febbraio 2003 al giugno 2005, allorché per l’aggravarsi della patologia era stato ricoverato in ospedale, ove era deceduto il 16 giugno 2005.

Il decesso veniva imputato alla condotta colposa del medico che convinceva il paziente, durante il periodo in cui lo aveva avuto in cura (come detto da febbraio 2003 a giugno 2005), a rifiutare l’intervento chirurgico e le terapie tradizionali chemioterapiche (come consigliato da un altro medico che lo aveva visitato nel gennaio 2003).
Il medico proponeva, in luogo di dette terapie, unitamente a diete alimentari vegetariane, quelle, cc.dd. alternative, fondate sull’assunzione di medicinali di tipo “ayurvedico”, sprovviste di sperimentazione e non previste come forme di cura della patologia tumorale, in alcuna delle linee-guida riconosciute dalla comunità scientifica più accreditata.
Inoltre il paziente veniva convinto a non sottoporsi ad alcun esame strumentale che avrebbe consentito di controllare la progressione della neoplasia.
Quindi il medico aveva, in tal modo, favorito il decesso anticipato del paziente, decesso che sarebbe invece stato ritardato in modo apprezzabile se fosse stato tempestivamente praticato l’intervento chirurgico associato a chemio e radio-terapia di tipo adiuvante.

Il ricorso in Appello del medico

Seguiva appello dell’imputato e la Corte di Venezia, con sentenza 28 aprile 2016, n.1682, dichiarava il reato estinto per prescrizione, ma, ai sensi dell’art. 578 c.p.p., nella formulazione applicabile ratione temporis, decise sull’impugnazione agli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza concernenti gli effetti civili, riformando – solo in ordine all’importo del risarcimento (ridotto da 100.000 euro a 60.000 euro) – la condanna emessa in primo grado in favore della sorella della vittima costituita parte civile.

Il capo della decisione della Corte veneta del 2016 sopra menzionato, riguardante l’azione civile, veniva annullato dalla Corte di Cassazione-Quarta Sezione Penale, con sentenza 16 febbraio 2018, n. 7659. Con questa pronuncia, la Corte di Cassazione accoglieva la doglianza diretta a censurare il giudizio sul nesso causale formulato dalla Corte d’appello.

La Cassazione penale osservava che, nel caso concreto, era mancata, nell’itinerario argomentativo “l’analisi della problematica relativa agli effetti che, nel caso di specie, avrebbero avuto le terapie tradizionali”, ovverosia, la risposta al quesito “se, praticando queste ultime, il paziente sarebbe guarito o sarebbe sopravvissuto più a lungo o se l’intensità lesiva della patologia si sarebbe affievolita, anche sotto il profilo della presenza e dell’intensità del dolore”; pertanto, annullava la sentenza agli effetti civili, rinviando al Giudice civile competente.

Accertamento del nesso causale

La Corte d’Appello di Venezia, quale giudice civile competente, con sentenza 30 dicembre 2019, n. 5747, ha condannato il medico a pagare alla sorella della vittima a titolo di risarcimento dei danni patiti in seguito alla morte del congiunto la somma di 60.000 euro.

La Corte veneta ha effettuato, come richiesto dalla Cassazione penale, l’accertamento sulla sussistenza del nesso causale tra la condotta colposa del medico e il decesso del paziente, basandosi sulle risultanze della perizia effettuata nel primo grado del giudizio penale e su quelle della Consulenza tecnica espletata nel corso del procedimento per le indagini preliminari.

Al riguardo, la Corte, dopo aver premesso che all’epoca dei fatti, l’itinerario terapeutico più indicato era quello del c.d. trattamento “sandwich (ovverosia dell’intervento chirurgico preceduto e seguito da trattamenti chemio e radio-terapici), ha osservato che, avuto riguardo “allo stato della malattia al momento della diagnosi, se il paziente si fosse sottoposto a tale corretto trattamento, anziché assumere le medicine alternative con elevata probabilità, sarebbe sopravvissuto per un periodo notevolmente superiore ai due anni e otto mesi, stimabile in cinque anni nel 60% dei casi.
Inoltre avrebbe avuto anche una non irrilevante probabilità di guarigione, atteso che all’epoca dei fatti, l’intervento chirurgico e la chemio-radio-terapia portavano ad una regressione completa della neoplasia in percentuali variabili tra il 12% e il 27% dei casi; egli, inoltre, avrebbe avuto senz’altro una migliore qualità della vita, se avesse usato gli antidolorifici che, invece, il medico ritenuto colpevole gli aveva vietato persino nella fase terminale della malattia”.

Il secondo ricorso in Cassazione

Il medico ricorre in Cassazione. Viene censurata la sentenza impugnata per aver rinnovato il giudizio sulla sussistenza del nesso causale tra la condotta negligente ed imperita del medico e il decesso del paziente, sul rilievo che tale giudizio, nelle diverse argomentazioni in cui si è articolato, sarebbe stato inibito dal dictum della decisione della Corte di Cassazione Penale del 2018, sopra menzionato. Con riguardo al merito dell’accertamento, il ricorrente pone in luce l’erroneità del richiamo a 6-8 settimane di distanza dalla diagnosi per il corretto intervento chirurgico e l’omessa considerazione di una dichiarazione sui benefici di trattamenti ayurvedici.

Tutti i motivi di ricorso hanno (erroneo) fondamento in un macroscopico travisamento dei presupposti, del contenuto e degli effetti della pronuncia della Corte di cassazione-Sezione Quarta Penale 16/02/2018, n.7659. Questa pronuncia ha operato il giudizio rescindente della sentenza d’appello n.1682/2016, limitato agli effetti civili, e ha conseguentemente rinviato al Giudice civile competente per valore in grado d’appello, per il giudizio rescissorio, in applicazione della disposizione di cui all’art. 622 c.p.p.

L’accertamento dell’illecito civile

La norma codicistica citata prevede che, fermi gli effetti penali della sentenza, la Corte di Cassazione, se annulla solamente le disposizioni o i capi che riguardano l’azione civile, ovvero se accoglie il ricorso della parte civile contro la sentenza di proscioglimento dell’imputato, rinvia quando occorre al Giudice civile competente per valore in grado di appello, anche se l’annullamento ha per oggetto una sentenza inappellabile. Ciò significa che sugli effetti penali della sentenza d’appello (che non formano oggetto del giudizio rescindente) si è formato il giudicato e il giudizio rescissorio che ha svolto il Giudice civile è indirizzato all’accertamento dell’illecito civile e alla formulazione del giudizio di responsabilità civile dell'(ex) imputato.

Difatti, correttamente la Corte di Appello di Venezia, con la sentenza che è oggetto di discussione, ha provveduto al motivato accertamento dei detti elementi costitutivi, ed in primo luogo di quello del nesso causale, in applicazione della regola di funzione probabilistica applicabile nel giudizio civile.

Per quanto riguarda la vicenda clinica del paziente, le doglianze del medico sono attinenti alla ricostruzione delle circostanze di fatto e alla valutazione delle prove riservate al Giudice del merito, cui compete non solo la valutazione delle prove ma anche la scelta, insindacabile in sede di legittimità, di quelle ritenute più idonee a dimostrare la veridicità dei fatti ad esse sottesi.

OSSERVAZIONI

Il ricorso alla Cassazione da parte del medico è interamente fondato su argomenti pretestuosi diretti a confermare un’insostenibile interpretazione del dictum della pronuncia rescindente della Cassazione penale del 2018, nonché a denunciare una (evidentemente insussistente) arbitraria violazione dei limiti della propria cognizione da parte del Giudice civile investito dell’autonomo giudizio rescissorio.

Tutto ciò si traduce in una condotta processuale connotata da mala fede o colpa grave, contraria ai canoni di correttezza, nonché idonea a determinare oggettivamente, attraverso un uso abusivo del mezzo di impugnazione, un ingiustificato sviamento del sistema processuale dai suoi fini istituzionali, ponendosi in posizione incompatibile con un quadro ordinamentale che, da una parte, deve universalmente garantire l’accesso alla tutela giurisdizionale dei diritti (art.6 CEDU) e, dall’altra, deve tenere conto del principio costituzionale della ragionevole durata del processo e della conseguente necessità di strumenti dissuasivi rispetto ad azioni meramente dilatorie, defatigatorie o pretestuose.

Correttamente, infatti, la Suprema Corte ha sanzionato tale condotta con la condanna del soccombente al pagamento, in favore della controparte, di una somma equitativamente determinata, ai sensi dell’art.96, terzo comma, c.p.c.

Avv. Emanuela Foligno

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