Respinto il ricorso di un’Azienda accusata di inadempimento dell’obbligo di sicurezza in relazione all’infortunio occorso a un lavoratore

Con l’ordinanza n. 35028/2021 la Cassazione si è pronunciata sul ricorso di Poste Italiane contro la decisione dei Giudici del merito che riconosceva a un dipendente il diritto al risarcimento del danno per inadempimento dell’obbligo di sicurezza ex art. 2087 c.c. in relazione a un infortunio occorsogli sul lavoro. Nello specifico, il lavoratore, posizionato sul piano esterno di un camion posto sul piazzale del centro di smistamento e intento a spingere i cassoni verso il fondo del mezzo, era scivolato rovinosamente sul piano stesso, reso viscido dalla pioggia battente, cadendo da un’altezza di circa mt. 1,50.

La Corte territoriale aveva ritenuto in effetti violato l’obbligo di sicurezza, discendendo l’evento di danno da deficienze organizzative e, nello specifico, dalla mancata considerazione di alcuni dei rischi sottesi alle lavorazioni cui quell’evento si correlava (assenza di pensilina utile a proteggere il lavoratore dalla pioggia persistente sotto la quale operava, necessità di svolgere la movimentazione del carico manualmente in quanto impossibilitato ad utilizzare sollevatori idraulici per essere il camion sprovvisto di una ribalta che consentisse l’accesso al piano di carico sopraelevato del camion stesso e comunque per non consentire lo spazio disponibile lo svolgimento dell’attività con modalità meccaniche, inidoneità del presidio individuale di protezione, le calzature di sicurezza, rispetto allo “sforzo di spinta necessario” alla movimentazione, attività da ritenersi, in considerazione delle condizioni in cui era svolta, di carattere straordinario). Da lì il Giudice di secondo grado aveva accertato la sussistenza di una lesione dell’integrità psicofisica del lavoratore suscettibile di accertamento medico- legale, correttamente apprezzata in sede di CTU sulla base dei criteri civilistici di valutazione del danno biologico e liquidati applicando i criteri utilizzati dal Tribunale di Milano con riconoscimento altresì del danno emergente in misura pari alle documentate spese di viaggio sostenute dal lavoratore per sottoporsi ai trattamenti sanitari ed alle visite di controllo.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, la Società ricorrente imputava alla Corte territoriale l’erroneità dell’interpretazione restrittiva accolta della norma invocata (ritenuta riferita esclusivamente ai lavori svolti in luogo chiuso) e la conseguente sancita irrilevanza del dato accertato dell’utilizzo di idonee calzature impermeabili che, viceversa, in base alla predetta norma, valeva ad escludere l’imputabilità dell’evento all’Azienda. Lamentava, inoltre, la non conformità a diritto del convincimento espresso dalla Corte territoriale circa il derivare dell’evento dall’inveramento di un rischio lavorativo del tutto estraneo alla specifica formazione (ed informazione) resa al lavoratore e aggravato dal contesto ambientale di inveramento, che assumeva essere frutto di una lettura della norma invocata in base alla quale il criterio di imputazione della responsabilità abbia carattere oggettivo, prescindendo dalla colpa del soggetto datore, piuttosto che soggettivo fondato sulla colpa del datore medesimo. Infine, la parte ricorrente eccepiva l’incongruità dell’iter logico giuridico posto dalla Corte territoriale a base della propria pronunzia per aver desunto dal determinarsi dell’evento pregiudizievole dell’integrità psicofisica del lavoratore la configurabilità di una condotta illecita del datore quale causa dell’evento stesso e la stessa risarcibilità del danno biologico come autonoma categoria di danno ulteriore rispetto al danno non patrimoniale, viceversa destinato a ricomprenderlo.

Gli Ermellini, tuttavia, hanno ritenuto di non aderire alle argomentazioni proposte.

Il primo motivo doveva, infatti, ritenersi inammissibile, atteso che il rilievo della Corte territoriale, censurato dalla Società ricorrente in quanto fondato su un’interpretazione dell’art. 7, d.P.R. 19.3.1956 n. 303 considerata eccessivamente restrittiva, circa la ritenuta irrilevanza dell’uso del dispositivo individuale di protezione (indicato in ricorso e qualificato dalla legge in sé idoneo ad escludere l’imputabilità del datore) trovava giustificazione nella valutazione, di per sé non fatta oggetto di specifica censura, dell’essere il rischio lavorativo connesso allo svolgimento delle mansioni assegnate al lavoratore eccedente l’efficacia protettiva di quella misura e tale da esporre il lavoratore stesso con i suoi colleghi all’evento dannoso in condizioni di obiettiva insicurezza del lavoro, tanto per i mezzi, anche individuali, posti a tutela della sua persona quanto per il complessivo apparato organizzativo che quel rischio aveva creato. Conseguentemente infondato risultava anche il secondo motivo, rinvenendosi nella suddetta più ampia situazione di rischio apprezzata dalla Corte territoriale l’inadempimento colposo del datore dell’obbligo di sicurezza di cui all’art. 2087 c.c. e la riferibilità al medesimo di una condotta illecita; parimenti infondato si rivelava il terzo motivo, dovendosi ritenere come avesse formato oggetto di uno specifico accertamento da parte della Corte territoriale, che ne aveva dato ampiamente conto nella motivazione dell’impugnata sentenza, la relazione di causa/effetto tra la situazione di rischio apprezzata come insita nelle condizioni operative del lavoro affidato e, come detto, correttamente ricondotta al mancato intervento in prevenzione del datore e l’evento pregiudizievole subito dal lavoratore e come questa fosse idonea a porsi quale presupposto fondante la proposta domanda risarcitoria altrettanto correttamente determinata in relazione a quanto allegato e provato con riguardo, non all’evento in sé ma alle conseguenze dallo stesso rivenienti e nel quadro di una considerazione complessiva del danno non patrimoniale, concorrendo con il danno biologico la sola componente, comunque rilevante, del danno morale.

La redazione giuridica

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