Il licenziamento del lavoratore che abbia fatto causa al suo datore per ottenere il pagamento di differenze retributive è certamente ritorsivo; tuttavia, affinché sia dichiarato nullo, è necessario che la ragione di rappresaglia costituisca l’unico motivo che lo abbia determinato

La vicenda

Il ricorrente era un dipendente di una casa di cura, assunto nel 1998 con la mansione di coordinatore tecnico addetto al reparto di radiologia, ed era retribuito mediante la corresponsione mensile del trattamento economico previsto dalla contrattazione collettiva di settore per il VII livello, di un superminimo non assorbibile ad personam (di lire 1.000.000) e del 2% del fatturato del servizio TAC e RMN: trattamento che, secondo l’espressa previsione del contratto di lavoro, avrebbe dovuto essere erogato per tutta la durata del rapporto e anche in caso di futura cessione della clinica, totale o parziale, a terzi.

Nel 2008 la datrice di lavoro si trasformava in s.r.l. e la totalità delle quote societarie venivano acquisite da un Gruppo.

Nel marzo 2009 lo stesso ricorrente, preso atto della difficile situazione in cui versava la clinica ma anche delle prospettive di crescita professionale all’interno della struttura rinnovata, rinunciava alle somme a lui dovute a titolo di compenso del 2%, maturate per l’anno 2008 e sino al 31.3.2009.

Seguiva un semestre di aspettativa non retribuita e, quindi, il collocamento in cassa integrazione (CIG).

Ripresa nel gennaio 2010 l’attività lavorativa, il lavoratore perdeva il compenso del 2% e, dal settembre 2015, perdeva anche, poiché soppresso, il superminimo ad personam.

Cosicché, nell’aprile del 2016 quest’ultimo adiva il giudice del lavoro di Taranto per il pagamento delle somme a lui spettanti quale compenso “provvigionale” dal 2010 al 2015, depositando ricorso ai sensi dell’art. 414 c.p.c.

Ma il 4 del mese successivo riceveva la raccomandata, inviata dalla società datrice di lavoro, nella quale gli veniva preannunciato il licenziamento per giustificato motivo oggettivo, indicato nella necessità di riorganizzazione della struttura e di una più economica gestione della stessa, oltre che nel costo, incompatibile, derivante dalle – troppo onerose – condizioni contrattuali in suo favore.

La mancata conciliazione

Le parti comparivano davanti alla Direzione del Lavoro di Taranto, ma la conciliazione non aveva luogo: la società, che inizialmente aveva formulato un’offerta di 130.000, 00 euro a titolo di “incentivo all’esodo” dietro rinunzia del dipendente ad ogni e qualunque rivendicazione (fatte salve le competenze di fine rapporto), proponeva poi la conservazione del posto di lavoro con mansioni analoghe a quelle di tutti gli altri colleghi, la soppressione del superminimo e del compenso del 2% sul fatturato RMN e TAC. In alternativa, ribadiva l’offerta di un incentivo all’esodo, previa risoluzione consensuale del rapporto.

Dal canto suo il lavoratore avrebbe accettato la proposta di mantenimento del posto alle condizioni indicate dietro pagamento di 50.000,00 euro a titolo di compensazione dell’inquadramento nella categoria inferiore ed alla prosecuzione del giudizio pendente per la quantificazione del compenso provvigionale.

Cosicché le parti non raggiungevano alcun accordo e, di li a poco, il lavoratore riceveva la lettera di licenziamento, del quale denunciava, col ricorso introduttivo del giudizio di primo grado, la natura ritorsiva nonché l’ingiustificatezza e l’insussistenza delle ragioni addotte a fondamento.

In primo grado il Tribunale escludeva la ritorsività del licenziamento, affermando che “se è vero che il licenziamento del lavoratore che abbia fatto causa al suo datore di lavoro per ottenere il pagamento di differenze retributive è certamente ritorsivo, tuttavia, affinché esso sia dichiarato nullo è necessario che la ragione di rappresaglia costituisca l’unico motivo che lo abbia determinato; tanto può essere dimostrato anche attraverso presunzioni, fra le quali, l’insussistenza delle diverse ragioni addotte dal datore di lavoro a sostegno del recesso”.

Ebbene, nel caso di specie vi erano le evidenti difficoltà economiche in cui versava la società datrice di lavoro; circostanze, peraltro bene note al lavoratore.

Il giudizio di secondo grado

La Corte d’appello di Lecce (sentenza n. 31/2019) ha ribaltato l’esito del giudizio di primo grado, dichiarando la natura ritorsiva del licenziamento, “surrettiziamente motivato dall’azienda col riferimento a difficoltà economiche non chiaramente acclarate”. Al contrario, dalla documentazione prodotta in giudizio era risultato un incremento degli utili.

Neppure è stato condiviso l’assunto secondo cui il fatto che il lavoratore avesse spontaneamente deciso di rinunziare al compenso provvigionale, effettuato nel marzo del 2009 (e relativa solo al 2008 e ai primi tre mesi del 2009), avesse natura confessoria circa la conoscenza delle effettive difficoltà economiche della datrice di lavoro.

È infatti del tutto evidente – ha affermato la corte d’appello – “come quella manifestazione di volontà potesse e dovesse ricondursi esclusivamente alle vicende dell’epoca in cui era stata formalizzata e non certamente alle condizioni sussistenti al momento del licenziamento, di sette anni successive”.

La redazione giuridica

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