Minacce dal parcheggiatore abusivo, violenza privata o estorsione?

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Accolto il ricorso contro la sentenza di appello che aveva riqualificato il reato contestato a un parcheggiatore abusivo accusato di aver rivolto minacce a una donna per essere pagato

Condannato in primo grado per tentata estorsione, in appello si era visto riqualificare i fatti nel più lieve delitto di tentata violenza privata, subendo una riduzione della pena inflitta dal tribunale. L’uomo, nello specifico, svolgeva l’attività di parcheggiatore abusivo ed era accusato di aver rivolto alla persona offesa precise minacce dirette ad ottenere un ingiusto profitto tramite il pagamento dell’obolo ovvero lo spostamento del mezzo in altra sede al fine di permettere il parcheggio ad altri per così ricavarne analoghi guadagni illeciti.

Contro la decisione della Corte territoriale proponeva ricorso per cassazione il procuratore generale deducendo l’errata applicazione della legge penale quanto alla riqualificazione dei fatti nel reato di cui agli artt. 56 e 610 del codice penale.

La Suprema Corte, con la sentenza n.16030/2020 ha ritenuto di accogliere il ricorso in quanto fondato.

Gli Ermellini hanno chiarito che, in base all’orientamento della giurisprudenza di legittimità, commette il reato di estorsione e non quello di esercizio arbitrario delle proprie ragioni colui che, con violenza o minacce, pretenda il pagamento di un compenso per l’attività di parcheggiatore abusivo e ciò perché ove alla richiesta del pagamento di somme si accompagni anche la rappresentazione di un male futuro alle cose od alla persona la pretesa è illegittima, trattandosi di posteggiatore non autorizzato, ma anche portata con gli illeciti mezzi della violenza e della minaccia.

Nel caso in esame, dalla pacifica ricostruzione dei fatti contenuta nelle sentenze di primo e secondo grado, risultava che la richiesta dell’imputato fosse stata formulata in relazione all’ingiusto profitto costituito dal lucrare un compenso non dovuto dalla commercializzazione di quel posto auto.

Il Giudice di secondo grado, tuttavia, aveva precisato che la richiesta formulata all’indirizzo della donna era destinata a non trovare riposta positiva per l’atteggiamento di resistenza della vittima che aveva anche in passato negato il pagamento richiesto in occasione di precedenti parcheggi in quell’area.

Tale circostanza, tuttavia, per la Cassazione non determina la differente qualificazione giuridica del fatto, posto che agendo l’imputato al fine di realizzare vantaggi patrimoniali dall’occupazione del posto, non ottenuti per ragioni indipendenti dalla sua condotta, deve ritenersi proprio integrata l’ipotesi di estorsione tentata e non consumata, come contestato in imputazione e ritenuto all’esito del giudizio di primo grado, essendo stati compiuti atti diretti ad ottenere un ingiusto vantaggio patrimoniale cui non seguiva il danno ingiusto a causa della condotta oppositiva della persona offesa.

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