Nesso di causalità tra le condizioni di lavoro e il danno subito

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Una dipendente del Comune di Pachino si rivolgeva al Tribunale di Siracusa per ottenere la condanna del proprio datore di lavoro al risarcimento del danno per le condizioni di lavoro e la forzata inattività cui era stata costretta nel periodo dal 20 aprile 2010 al giugno 2012.

I giudizi di merito

Il Giudice del lavoro rilevava effettivamente la privazione delle mansioni lamentata e riteneva che ciò determinava, come accertato dalla CTU medico-legale, un disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti con un danno biologico temporaneo del 15% dal tempo della sua insorgenza”, e condannava il Comune a risarcire il danno liquidato in 10.492,35 euro.

La Corte di Appello di Catania, invece, in integrale riforma, rigetta la domanda della lavoratrice sostenendo la mancanza di correlazione cronologica tra la sintomatologia presentata dalla lavoratrice e gli episodi denunciati. Sostiene, nello specifico, che la documentazione medica di febbraio e aprile 2010 escludesse la riconducibilità causale del danno lamentato alle condizioni di lavoro e all’inadempimento datoriale che la lavoratrice aveva collocato con l’inizio di una “situazione di protratta conflittualità nell’ambiente di lavoro iniziata nell’aprile 2010” ed in particolare con un momento ben preciso individuato nell’ordine di servizio n. 16 del 21/4/2010.

Il ricorso in Cassazione

Il caso approda in Cassazione dove la lavoratrice sostiene che Corte siciliana, dopo aver accertato una situazione di forzata inattività (mobbing), non avrebbe considerato il mancato assolvimento da parte del datore di lavoro della prova di avere adottato tutte le cautele necessarie ad impedire il verificarsi del danno, e che la malattia della dipendente non era ricollegabile alla inosservanza di tali obblighi. Lamenta, inoltre, il mancato riconoscimento del nesso causale tra la condotta vessatoria del Comune ed il danno subito, per come riconosciuto dalla sentenza di primo grado e degli esiti della CTU medica fatti propri dal suddetto decidente.

Quanto lamentato dalla lavoratrice è fondato e viene accolto (Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, 6 agosto 2024, n. 22161).

Per effetto del giudicato interno, nel periodo oggetto di causa, vi è stata “l’illegittimità della condotta dell’amministrazione di mantenere la lavoratrice in una situazione non solo di forzata inattività ma anche di isolamento lavorativo”.

Questo significa che il datore di lavoro ha violato i canoni di cui all’art. 2087 cc lasciando la dipendente in condizioni di lavoro di forzata inattività, anche se in assenza di specifici “intenti persecutori”.

Come accertato dal CTU in primo grado, la donna è risultata essere stata “affetta da disturbo dell’adattamento con ansia e umore depresso misti. La suddetta condizione, documentata dall’aprile 2010, è compatibile, sul piano eziopatogenetico, con una situazione di protratta conflittualità nell’ambiente di lavoro iniziata nell’aprile del 2010″.

Tuttavia, i Giudici di Appello sono pervenuti a conclusioni opposte valorizzando – errando – atti di parte ed emergenze probatorie differenti da quelli favorevolmente considerati dal Tribunale, senza indicare l’iter logico-giuridico seguito, omettendo in particolare di spiegare quali ragioni li abbiano indotti a privilegiare questi ultimi in luogo dei primi.

È ben vero che il Giudice può disattendere le risultanze della CTU, però deve motivare gli elementi di valutazione adottati e deve specificare le ragioni per cui ha ritenuto di discostarsi dalle conclusioni dell’ausiliare.

La Corte di Catania non ha applicato tali principi, difatti, a fronte dell’affermazione del CTU secondo cui la riscontrata condizione di disturbo dell’adattamento, documentata dall’aprile 2010, “è compatibile, sul piano eziopatogenetico, con una situazione di protratta conflittualità nell’ambiente di lavoro iniziata nell’aprile del 2010”, non si rinviene alcuna esplicitazione riguardo al diverso criterio logico seguito.

La valorizzazione del documento datato febbraio 2010, consistente in una richiesta di accertamenti ematochimici a firma del responsabile del servizio psichiatrico di diagnosi e cura del presidio ospedaliero di Avola e di un secondo documento, datato 10 aprile 2010, rilasciato dal medesimo servizio psichiatrico, consistente in una prescrizione farmacologica con l’indicazione della diagnosi “depressione ansiosa”, non è idonea a contrastare l’esito della valutazione medico-legale e l’oggettivo riscontro di un disturbo dell’adattamento ricollegabile alla situazione lavorativa.

La malattia cagionata dalle condizioni di lavoro

In sostanza, non vi è stata alcuna precisa valutazione di diagnosi a confronto né alcuna indicazione di quale sarebbe stata la causa della malattia diversa dall’ambiente di lavoro; parimenti non vi è stata alcuna considerazione, eventualmente sulla base di un supplemento di CTU, di quanto la condizione lavorativa possa avere eventualmente inciso su un pur pregresso stato patologico.

Come già affermato dalla giurisprudenza (Cass. 9 novembre 2022, n. 33080), rileva l’apporto eziologico anche della dose cd. Correlata, ovvero del permanere della esposizione ai fattori di rischio (dunque della condotta inadempiente ex art. 2087 cc) successiva all’eziopatogenesi della malattia.

Conclusivamente, deve essere data rilevanza anche alle condotte inadempienti rispetto agli obblighi di sicurezza successive alla genesi della patologia, delle quali va verificata l’incidenza eziologica come fattore di aggravamento o accelerazione.

Avv. Emanuela Foligno

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