Il giudizio sulla adeguatezza dell’onere probatorio in merito alla causalità cd. ‘estintiva’, che grava sul debitore, si pone come momento successivo e subordinato alla prova della causalità materiale da parte dell’attore

In tema di onere probatorio nell’ambito della responsabilità medica, “il creditore è tenuto a provare anche la causalità materiale (cosiddetta “costitutiva”), ossia il nesso tra la condotta del debitore e l’evento di danno, mentre grava sul debitore la prova liberatoria consistente nel provare o l’esatto adempimento o l’inadempimento per causa sopravvenuta a lui non imputabile”. Tale distinzione – come chiarito dalla Cassazione nella sentenza n. 21372/2021 – è stata elaborata proprio perché “nelle obbligazioni cd. ‘a risultato intermedio’, come quelle che hanno ad oggetto un facere professionale, è possibile assistere a una scissione tra inadempimento e danno. Il principio generale che ne consegue, sul piano probatorio, è quello secondo il quale grava sul paziente, oltre che l’onere della prova del titolo e l’allegazione dell’inadempimento, anche quello di provare il nesso causale tra l’evento di danno e la condotta del medico. Il caso esaminato dagli Ermellini è quello che aveva visto i congiunti di una paziente convenire in giudizio l’Azienda Sanitaria locale per accertarne l’inadempienza alle obbligazioni di corretta assistenza sanitaria nei confronti della loro congiunta, deceduta a 22 anni in seguito a un tumore benigno al cervello. Gli attori avevano lamentato il ritardo nella diagnosi, l’errata esecuzione degli interventi chirurgici nonché la incompletezza delle cartelle cliniche e la mancata esecuzione della autopsia, chiedendo la condanna dell’azienda convenuta al risarcimento di curo 300.000,00 per ciascun genitore e 100.000,00 per ciascun fratello.

In particolare, gli attori deducevano che la vittima si era presentata presso il Pronto Soccorso il giorno 12 maggio 2011 accusando diversi sintomi, tra cui vomito e cefalea, e i medici le avevano diagnosticato “diabete mellito di tipo I”, con conseguente ricovero, senza ulteriori approfondimenti circa l’origine della cefalea. Dimessa dall’ospedale, la stessa vi si era presentata nuovamente in data 8/07/2011 ed era stata ricoverata d’urgenza, senza che, anche in tale occasione, venisse eseguito alcun approfondimento neurologico, nonostante un riscontrato difetto di deambulazione. Successivamente, in data 1/12/2011, la ragazza era stata ancora ricoverata e durante la permanenza in ospedale era caduta dal letto. Solo in seguito a tale fatto i sanitari avevano optato per un esame neurologico, che aveva evidenziato la presenza di una lesione celebrale (tumore benigno), motivo per il quale erano seguiti una serie di interventi che non avevano sortito l’effetto sperato, e in data 3/12/2011 la paziente era morta, anche a causa dell’insorgenza di broncopolmonite e anossia celebrale.

Istruita la causa mediante ctu, il Tribunale aveva rigettato le domande attoree ritenendo in particolare, non adeguatamente adempiuto l’onere probatorio gravante sulle parti attrici, e in particolare non provato il nesso di causa tra la condotta dei sanitari e l’evento morte. Il Tribunale aveva richiamato la relazione del CTU, secondo cui, all’epoca dei primi accessi presso la struttura sanitaria, non sussistevano manifestazioni cliniche rivelatrici del tumore, essendo tra l’altro la cefalea sintomo anche dell’altra malattia di cui la paziente era affetta (il diabete mellito); non era inoltre possibile riscontrare irregolarità nel comportamento dei sanitari dell’ospedale né vi era alcun nesso eziologico tra i profili di disorganizzazione della struttura ospedaliera (in particolare la carente redazione delle cartelle cliniche) e il decesso della ragazza.

La Corte d’appello aveva confermato la decisione di primo grado, ritenendo il comportamento dei sanitari conforme alle linee guida e agli standard richiesti per il caso specifico rispetto ad ogni ricovero della paziente. Ancora, la Corte aveva ritenuto non provata la causalità materiale, consistente nel nesso eziologico tra l’operato dei sanitari e il decesso della ragazza, onere che incombeva sugli attori.

Nel rivolgersi alla Suprema Corte, i parenti della donna lamentavano, tra gli altri motivi, la “violazione e/c) falsa applicazione dell’art. 360 n. 3 c.p.c. e dell’art. 360 n. 4 c.p.c. con riferimento all’art. 1218 c.c. e all’art. 2697 c.c. in ordine al rispetto delle norme che stabiliscono gli oneri probatori a carico delle parti in caso di contestazione di inadempimento delle obbligazioni”. I ricorrenti sostengono che la struttura sanitaria non avrebbe adeguatamente fornito la prova liberatoria di cui all’art. 1218 c.c., soprattutto in merito alla mancata compilazione della cartella clinica, disattendendo in tal modo i principi e regole in tema di responsabilità contrattuale.

La Cassazione ha ritenuto infondata la doglianza proposta. Contrariamente a quanto asserito dai ricorrenti, la Cassazione ha ritenuto rispettati i principi in materia di responsabilità medica circa l’onere probatorio, poiché “il giudizio sulla adeguatezza di tale onere in merito alla causalità cd. ‘estintiva’, che grava sul debitore, si pone come momento successivo e subordinato alla prova della causalità materiale da parte dell’attore, circostanza non avvenuta nel caso di specie, avendo correttamente ritenuto i giudici di merito non dirimente la prospettazione attorca fondata sulle osservazioni dei CTU di parte e irrilevanti, ai fini della dimostrazione della causalità, le lacune delle cartelle cliniche.

La redazione giuridica

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