La revoca del trattamento pensionistico consegue al sopravvenuto difetto di un requisito soggettivo per il mantenimento dell’attribuzione patrimoniale di durata (Tribunale di Cagliari, n. 651/2021 del 10/06/2021- RG n. 2656/2018)

Il ricorrente espone di essere stato riconosciuto invalido civile, in quanto cieco con residuo visivo non superiore a 1/10 in entrambi gli occhi, nel mese di agosto 2011 e che, a decorrere dal mese di maggio 2017, gli era stata comunicata la sospensione del beneficio in godimento dalla Direzione dell’Inps di Cagliari, all’esito della comunicazione proveniente dal Ministero della Giustizi, in applicazione dell’articolo 2, della legge 92 del 2012, cui aveva fatto seguito la revoca della trattamento pensionistico di invalidità in godimento a far data dal mese di agosto 2017.

In particolare, i motivi che avevano determinato la decisione dell’Inps erano costituiti dalla condanna che, in data 30 gennaio 1995, gli era stata inflitta dalla Corte d’Assise d’Appello di Cagliari, con sentenza divenuta irrevocabile in data 15 giugno 1995 in ordine a vari reati, compreso quello di strage, di cui all’articolo 422 del codice penale , tutti commessi negli anni tra il 1990 e il 1991 .

Deduce il ricorrente che il provvedimento di revoca del trattamento pensionistico doveva ritenersi illegittimo sotto un duplice profilo. Da un lato il disposto dell’articolo 2 della legge 92 del 2012 aveva previsto che dovesse essere il giudice penale ad applicare la sanzione accessoria della revoca del trattamento in contestazione, mentre nel caso di specie ciò non era avvenuto, nonostante tale automatismo fosse stato instaurato dal legislatore successivamente alla condanna in contestazione.

Doveva, inoltre, ritenersi violata sia la regola generale secondo cui la legge non può disporre che per l’avvenire, senza effetto retroattivo, come previsto dall’articolo 11 delle Preleggi, sia la regola speciale concernente le leggi penali, tali essendo anche quelle che dispongono delle pene accessorie, compresa quella in oggetto con riferimento alla revoca della pensione, che non possono essere applicate oltre i casi ed i tempi in essere considerati , ai sensi dell’articolo 14 delle Preleggi e, prima ancora, dell’articolo 2 del codice penale, anche sotto il profilo della gerarchia delle fonti, ai sensi dell’articolo 25 della Carta Costituzionale.

L’Inps si costituisce in giudizio deducendo che la sospensione della pensione di invalidità civile in godimento , e la revoca della stessa , era stata disposta in ragione di quanto previsto dal comma 61 dell’art . 2 della legge 92 del 2012, con il quale era stata disposta la revoca di alcune tipologie di prestazioni riconosciute in favore di soggetti condannati per reati di particolare allarme sociale.

Il concetto di revoca previsto dal citato comma 61 era stato applicato dall’istituto, in fase di prima operatività, come sospensione della prestazione nei confronti degli interessati, fino all’eventuale riattivazione su domanda, previa verifica della completa esecuzione della pena, accompagnata dalla comunicazione all’interessato che era possibile presentare il modello AP93 per accedere nuovamente ai benefici assistenziali, una volta avvenuta l’esecuzione della pena.

Il Tribunale dà atto che l’Inps , richiamava a sostegno del provvedimento di revoca, quanto disposto dall’art. 2, commi 58/63, della legge n. 92/2012, secondo cui: “ Con la sentenza di condanna per i reati di cui agli articoli 270 -bis, 280, 289 -bis, 416 -bis, 416 -ter e 422 del codice penale, nonché per i delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dal predetto art. 416 -bis ovvero al fin e di agevolare l’attività delle associazioni previste dallo stesso articolo, il giudice dispone la sanzione accessoria della revoca delle seguenti prestazioni, comunque denominate in base alla legislazione vigente, di cui il condannato sia eventualmente titolare: indennità di disoccupazione, assegno sociale, pensione sociale e pensione per gli invalidi civili. Con la medesima sentenza il giudice dispone anche la revoca dei trattamenti previdenziali a carico degli enti gestori di forme obbligatorie d i previdenza e assistenza, ovvero di forme sostitutive, esclusive ed esonerative delle stesse, erogati al condannato, nel caso in cui accerti, o sia stato già accertato con sentenza in altro procedimento giurisdizionale, che questi abbiano origine, in tutto o in p arte, da un rapporto di lavoro fittizio a copertura di attività illecite connesse a taluno dei reati di cui al primo periodo. I condannati ai quali sia stata applicata la sanzione accessoria di cui al comma 58, primo periodo, possono beneficiare, una volta che la pena sia stata completamente eseguita e previa presentazione di apposita domanda, delle prestazioni previste dalla normativa vigente in materia, nel caso in cui ne ricorrano i presupposti.”

Ciò posto, il ricorrente ha contestato il potere dell’Inps ad applicare automaticamente ai soggetti condannati la revoca dei trattamenti in godimento, essendo necessaria in tal senso una pronuncia del giudice penale volta ad applicare la sanzione accessoria della revoca, come previsto dall’articolo 2 della legge 92 del 2012.

Ha, inoltre, contesta to la legittimità dell’interpretazione offerta dall’Inps dell’art. 2, commi 58/63, della legge n. 92/2012 , in quanto adottata in violazione del principio di irretroattività della legge in generale e in particolare della legge penale, compresa quella che disciplina le pene accessorie come la revoca della pensione in questione, che non può essere applicata oltre i casi e i tempi in essa considerati, deducendo anche la violazione dell’articolo 25 della Costituzione.

Entrambe le doglianze sono infondate.

Non sussiste violazione di irretroattività delle leggi poiché la revoca dei trattamenti previdenziali ed assistenziali , prevista in particolare dal citato comma 61 dell’ art. 2 della l. 92/2012, non ha natura di sanzione penale, dal momento che il divieto di irretroattività di cui all’art. 25 Cost. ha per oggetto le sole sanzioni che, al di là del nomen iuris utilizzato dal legislatore , rivestono natura sostanzialmente penalistica.

Il citato articolo 61 ha, infatti, previsto che, per le condanne ormai definitive alla data dell’introduzione delle nuove disposizioni, la revoca della prestazione assistenziale, senza efficacia per i ratei già maturati, e cioè con effetto non retroattivo, sia disposta direttamente dall’Istituto erogatore , previa trasmissione dei relativi elenchi da parte del Ministero della Giustizia.

Si discorre, quindi, di una misura che opera in via amministrativa senza l’intermediazione del provvedimento giurisdizionale penale , che ne costituisce solo il presupposto storico e che riveste il carattere extra penale della condanna.

Conseguentemente non spettava al Giudice penale applicare la revoca, bensì all’Inps.

Sul punto la Suprema Corte ha statuito che non rientrano nella cognizione del giudice dell’esecuzione, ma in quella del giudice civile, le questioni concernenti la revoca di prestazioni previdenziali e assistenziali disposta direttamente dall’Istituto erogatore in caso di condanna divenuta definitiva prima dell’entrata in vigore di detta legge per taluno dei reati di particolare allarme sociale previsti dall’articolo 2, comma 58, costituendo essa un mero effetto extrapenale della condanna e non un aspetto del trattamento sanzionatorio del reato.

Quindi, per le condanne ormai definitive alla data dell’introduzione delle nuove disposizioni, la revoca, senza efficacia per i ratei già maturati, della prestazione assistenziale è disposta direttamente dall’Istituto erogatore, dietro trasmissione dei relativi elenchi da parte del Ministero della Giustizia.

La misura opera in via amministrativa, senza l’intermediazione del provvedimento giurisdizionale penale, che ne funge solo da presupposto storico.

La cessazione della prestazione assistenziale non costituisce un aspetto del trattamento sanzionatorio del reato, ma consegue al sopravvenuto difetto di un requisito soggettivo per il mantenimento dell’attribuzione patrimoniale di durata.

La Suprema Corte ha osservato che il legislatore ha istituito uno speciale statuto di «indegnità», connesso alla commissione di reati di particolare gravità, tali da giustificare, durante l’esecuzione della pena, il venire meno di trattamenti assistenziali che trovano il loro fondamento nel generale dovere di solidarietà dell’intera collettività nei confronti dei soggetti svantaggiati.

Correttamente, dunque, al ricorrente –condannata anche per il reato di strage-, è stata revocata la pensione di invalidità.

Il ricorso viene respinto e, in considerazione della novità e della complessità della questione giuridica trattata, e risolta dalla Suprema Corte solo nel 2018 dopo l’introduzione del giudizio, le spese di lite vengono interamente compensate tra le parti.

Avv. Emanuela Foligno

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