Nel caso di malattia non tabellata, il lavoratore deve fornire la prova del rischio lavorativo dimostrando l’esistenza di un nesso causale tra le concrete modalità di lavoro e la patologia da cui è affetto (Tribunale di Roma, Sez. IV Lavoro, Sentenza n. 6233/2021 del 23/06/2021 RG n. 7670/2021)
Con ricorso ritualmente notificato l’istante indicato in epigrafe, premesso di aver svolto, a partire dal 1988, la professione di conducente di linea di mezzi di trasporto pubblico locale presso una società di trasporto con orario di 195 ore al mese, deduce che a causa dello svolgimento di tali mansioni era stato esposto a fattori quali vibrazioni e microtraumatismi predisponenti l’insorgenza di patologie a carico della colonna vertebrale.
In data 22 marzo 2018 presentava denuncia della malattia che però l’Istituto respingeva ritenendo “gli accertamenti effettuati per il riconoscimento della malattia professionale evidenziano che il rischio lavorativo cui è stato esposto non è idoneo a provocare la malattia denunciata”.
Si costituisce in giudizio l’Inail sollevando eccezione di nullità del ricorso per assoluta genericità della causa petendi in assenza di ogni allegazione fattuale circa le modalità e caratteristiche intrinseche delle mansioni svolte dal ricorrente in relazione alla lamentata malattia lombo-sacrale in spondiloartriosi con sofferenza neurogena cronica L4 -L5 dx non prevista nelle tabelle allegate al T.U. 1124/65 e successive integrazioni e modifiche (DPR 336/94; D.M. 9.4.2008), come tale “malattia non tabellata”, ragione per la quale competeva al lavoratore dare la prova dell’esistenza della malattia, la prova del rischio lavorativo e del nesso di causalità.
Il Giudice non svolge la fase istruttoria e accoglie l’eccezione di nullità del ricorso.
L’Inail correttamente ha eccepito che non costituendo le patologie descritte in ricorso malattia tabellata, era onere di parte ricorrente indicare e provare le concrete modalità di lavoro che lo hanno visto impegnato negli anni a partire dal 1988 e dimostrare l’esistenza di un nesso causale tra le stesse e la patologia da cui è affetto.
Sul punto, la Suprema Corte ha recentemente ribadito che “ove la specifica malattia sia inclusa nella tabella, al lavoratore basterà provare la malattia e l’adibizione alla lavorazione nociva (anch’essa tabellata) affinché il nesso eziologico tra i due termini sia presunto per legge (sempre che la malattia si sia manifestata entro il periodo anch’esso indicato in tabella), presunzione in ogni caso non assoluta (…), rimanendo la possibilità per l’Istituto di provare una diagnosi differenziale, ossia di fornire la prova contraria idonea a vincere la presunzione legale dimostrando l’intervento causale di fattori patogeni extralavorativi (…) mentre diversamente, in tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata o ad eziologia multifattoriale, la prova della causa di lavoro grava sul lavoratore (…) e il nesso causale tra l’attività lavorativa e il danno alla salute dev’essere valutato secondo un criterio di rilevante o ragionevole probabilità scientifica (…)”.
Il ricorrente è affetto da malattia multifattoriale, dunque non tabellata, si è limitato ad affermare di aver svolto mansioni di autista di mezzi pesanti senza indicare le concrete modalità di lavoro che l’avrebbero esposto a particolare rischio e senza offrire elementi per valutare la sussistenza della loro nocività.
In buona sostanza non è stata indicata la tipologia di mezzi guidata (marca, modello e schede tecniche dei mezzi, anno di immatricolazione, caratteristiche tecniche degli ammortizzatori, esistenza o meno di sedili molleggiati, cadenza di interventi di manutenzione), i percorsi e le linee a cui è stato addetto, così come è stata del tutto omessa la descrizione delle caratteristiche stradali dei percorsi, tanto da non potersi escludere che l’istante fosse adibito a nuova linea tranviaria cittadina, certamente avente caratteristiche del tutto diverse, ad esempio, dalla guida di autobus obsoleti su percorsi accidentati.
La relazione medica allegata dall’Inail evidenzia: “considerata la mansione effettuata di autista di linea urbana e considerata la similitudine con altri casi a conoscenza si è potuta valutare per analogia la tipologia e l’entità dell’esposizione al rischio denunciato addivenendo alla conclusione che per i mezzi utilizzati dal lavoratore in epoca successiva all’anno 2000 esiste ampia documentazione che attesta l’utilizzo di vetture con sedute ergonomiche e sistemi di ammortizzazione delle vibrazioni tali da rendere ininfluente l’esposizione lavorativa………volendo anche valutare ipotetica condizione in cui lo specifico lavoratore non rientrasse nelle situazioni ottimali di lavoro desunte dai documenti valutati per analogia e non prodotti dall’istante…dai rilievi anamnestici raccolti e dall’anamnesi riportata in denuncia e nel ricorso si evidenzia un esordio della patologia a partire dall’anno 2011 e quindi lontano dal periodo in cui si potrebbe azzardare una presunzione di rischio all’epoca (prima del 2000)”.
Tale documento, oltre a ribadire che il ricorrente non ha fornito elementi idonei, esclude con certezza l’esposizione a rischio in relazione ai mezzi in utilizzo dal 2000 e, pur solo “azzardata” esposizione nel periodo precedente, esclude che la medesima possa essere valutata quale eziologica di una patologia manifestatasi ad oltre 10 anni di distanza dalla (pur solo ipotizzata) esposizione a rischio.
La richiesta di CTU avanzata dal ricorrente non può supplire alle carenze probatorie che incombono sullo stesso, considerato, anche che la Consulenza d’ufficio non è un mezzo di ricerca della prova, ma è uno strumento di valutazione tecnica di dati ed elementi già acquisiti al fascicolo.
Per tali ragioni il ricorso viene dichiarato nullo.
Le spese di lite vengono compensate non essendo stato possibile giungere ad accertamento nel merito.
Avv. Emanuela Foligno
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