Il Tribunale di Busto Arsizio condanna l’Ospedale di Gallarate a risarcire oltre un milione di euro agli eredi del paziente deceduto a causa di un ritardo diagnostico. Successivamente la Corte di Appello di Milano dimezza l’importo risarcitorio rapportandolo alle possibilità di sopravvivenza stimate. La Cassazione conferma la sentenza di secondo grado (Cassazione Civile, sez. III, 28/03/2024, n.8547).
La vicenda giudiziaria
Convenuti in giudizio innanzi al Tribunale di Busto Arsizio, l’Azienda Ospedaliera Sant’Antonio Abate di Gallarate (poi Azienda socio-sanitaria territoriale della Valle Olona) e il Medico, per il risarcimento del danno in relazione al ritardo diagnostico della patologia che aveva cagionato la morte del paziente.
Il Tribunale, previa CTU, accoglie la domanda e condanna i convenuti in solido al pagamento della somma di 803.686,50 euro, a titolo di danno non patrimoniale iure hereditatis, oltre accessori, della somma di 166.000 euro in favore di ciascuno dei figli e di 250.000 euro in favore del coniuge, a titolo di danno non patrimoniale iure proprio, oltre accessori, e della somma di 5.928 euro, a titolo di danno patrimoniale, oltre accessori.
Con sentenza del 17 agosto 2020 la Corte d’appello di Milano, in parziale riforma del primo grado, ravvisa vizio di ultrapetizione e condanna i convenuti in solido al pagamento della somma di 47.342,42 euro, a titolo di danno iure hereditatis, ed al pagamento della complessiva somma di 492.000 euro, a titolo di danno iure proprio.
Per quanto concerne la drastica riduzione dell’importo risarcitorio, i Giudici di Appello accertano come fondato il vizio di ultrapetizione lamentato dall’Azienda Ospedaliera, in quanto oggetto della domanda dei congiunti della vittima non era la morte, bensì la significativa riduzione della vita residua in relazione al ritardo diagnostico.
La Consulenza Tecnica
Il paziente, in base alla CTU, non aveva rilevato, all’esito della TAC del 10 febbraio 2009, una neoplasia di cm 5, con riduzione della possibilità di sopravvivenza a cinque anni dal 70% al 10%, secondo il criterio del “più probabile che non”.
Pertanto, secondo il ragionamento dei Giudici di secondo grado, l’evento dannoso non era rappresentato dalla morte, ma dalla riduzione della possibilità di usufruire di un tempo di sopravvivenza superiore rispetto a quello in concreto goduto, impedendo di intervenire con prontezza a livello chirurgico. Gli ermellini, quindi, osservano che, considerando il periodo di vita goduto a partire dal 10 febbraio 2009 pari a quattro anni e cinque mesi, a fronte di una probabilità di sopravvivenza a cinque anni del 70% se la diagnosi fosse stata tempestiva, spetta la somma di 18.777,36 euro per la privazione della possibilità di fruire del tempo residuo e la somma di 23.299,90 euro per l’inabilità temporanea, per un importo complessivo con gli accessori pari ad 47.342,42 euro.
Aggiungono i Giudici che per la perdita della possibilità di godere dell’esistenza in vita del congiunto nella misura del 70% per un arco temporale di cinque anni, oltre che per il riverbero sulla famiglia delle condizioni di gravissima sofferenza del paziente, spetta in favore dei familiari iure proprio il 60% dell’importo minimo previsto dalle tabelle milanesi, pari ad 98.400 euro per ciascuno in moneta attuale, per un complessivo importo di 492.000 euro.
Il ricorso in Cassazione
I familiari della vittima lamentano in Cassazione che il fatto allegato in giudizio è stato il nesso eziologico fra l’errore del medico e l’evento morte, e non quello della riduzione della durata della vita.
Il motivo è infondato. Il principio della corrispondenza fra il chiesto ed il pronunciato, la cui violazione determina il vizio di ultrapetizione, implica il divieto per il Giudice di attribuire alla parte un bene non richiesto o, comunque, di emettere una statuizione che non trovi corrispondenza nella domanda, ma non significa che il Giudice possa rendere la pronuncia richiesta in base ad una ricostruzione dei fatti di causa autonoma rispetto a quella prospettata dalle parti.
La violazione tra il chiesto e il pronunciato sussiste quando il Giudice, interferendo nel potere dispositivo delle parti, altera uno degli elementi dell’azione (petitum e causa petendi), attribuendo o negando ad alcuno dei contendenti un bene diverso da quello richiesto e non compreso, nemmeno implicitamente o virtualmente, nella domanda, oppure ponga a fondamento della decisione fatti e situazioni estranei alla materia del contendere, introducendo nel processo un titolo (causa petendi) nuovo e diverso da quello enunciato dalla parte a sostegno della domanda.
Della vicenda i Giudici di secondo grado hanno fornito una ricostruzione diversa rispetto a quella prospettata dai congiunti della vittima e hanno identificato l’evento dannoso non nella perdita della vita, ma nella significativa riduzione della durata della vita stessa. Ciò che il Giudice del merito ha accertato, in definitiva, è un evento di danno virtualmente compreso nel fatto costitutivo della domanda e dunque non vi è stata ultrapetizione.
La Suprema Corte enuncia il seguente principio di diritto:
“Non determina il vizio di ultrapetizione la decisione del Giudice del merito che, proposta domanda risarcitoria per responsabilità sanitaria da parte dei congiunti di persona deceduta in relazione a ritardo diagnostico, accerti che il danno evento in rapporto di causalità materiale con l’errore diagnostico sia costituito non dalla morte del congiunto, come esposto nella domanda, ma dalla riduzione della durata della vita“.
Ciò posto, in relazione alla denunciata omessa omogenea liquidazione del danno da perdita del rapporto parentale per il coniuge ed i figli, la censura è in realtà parametrata sulla ratio decidendi che sarebbe stata presente ove identificato l’evento dannoso nella morte del congiunto.
Invece, la ratio decidendi è quella di riduzione della durata della vita e dunque il Giudice di Appello ha correttamente parificato la liquidazione in favore di coniuge e figli, evidentemente sulla base delle peculiarità dell’evento dannoso.
Osservazioni dell’avvocato Foligno
La Suprema Corte cristallizza un importante concetto riguardante il decesso del paziente per errore medico.
Nel caso in analisi, i CTU hanno accertato, a causa del ritardo diagnostico, una riduzione della possibilità di sopravvivenza a cinque anni dal 70% al 10%, secondo il criterio del “più probabile che non”, se la diagnosi fosse stata tempestiva.
L’errore medico, quindi, non ha causato il decesso del paziente (che sarebbe comunque avvenuto), bensì la riduzione per il paziente della possibilità di usufruire di un tempo di sopravvivenza superiore rispetto a quello in concreto goduto.
Per la correlata liquidazione del danno, non bisogna fare riferimento agli importi tabellari inerenti la perdita parentale, bensì al periodo di vita goduto a fronte della probabilità di sopravvivenza del 70% a 5 anni.
Alla base del calcolo viene posto il periodo di vita goduta a partire dal 10 febbraio 2009 (4 anni e 5 mesi) a fronte di una probabilità di sopravvivenza a cinque anni (se la diagnosi fosse stata tempestiva). Quindi spetta la somma di 18.777,36 euro per la privazione della possibilità di fruire del tempo residuo e la somma di 23.299,90 euro per l’inabilità temporanea, per un importo complessivo con gli accessori pari ad 47.342,42 euro, il tutto a titolo iure hereditatis.
A titolo iure proprio, per la perdita della possibilità di godere dell’esistenza in vita del congiunto nella misura del 70% per un arco temporale di cinque anni, oltre che per il riverbero sulla famiglia delle condizioni di gravissima sofferenza del paziente, viene considerato il 60% dell’importo minimo previsto dalle tabelle milanesi (perché i CTU avevano stimato la riduzione della possibilità di sopravvivenza a cinque anni dal 70% al 10%, quindi 70 – 10 = 60), viene liquidato l’importo di 98.400 euro per ciascuno dei congiunti, per un complessivo importo di 492.000 euro.
Avv. Emanuela Foligno
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