Respinto il ricorso di un medico condannato per il decesso di un paziente morto per shock emorragico da lesione iatrogena venosa in sede di impianto delle protesi

Quando l’obbligo di impedire l’evento connesso a una situazione di pericolo grava su più persone obbligate a intervenire in tempi diversi, l’accertamento del nesso causale rispetto all’evento verificatosi deve essere compiuto con riguardo alla condotta e al ruolo di ciascun titolare della posizione di garanzia, stabilendo cosa sarebbe accaduto nel caso in cui la condotta dovuta da ciascuno dei garanti fosse stata tenuta, anche verificando se la situazione di pericolo non si fosse modificata per effetto del tempo trascorso o di un comportamento dei successivi garanti. Lo ha chiarito la Cassazione con la sentenza n. 3922/2020 pronunciandosi sul ricorso di un medico condannato in sede di merito per il decesso di un paziente, ricoverato per un intervento di artoprotesi dell’anca sinistra e morto per shock emorragico da lesione iatrogena venosa in sede di impianto della protesi.

In particolare, secondo l’impianto accusatorio, l’imputato avrebbe errato nel posizionamento delle leve nella parte anteriore dell’acetabolo e sulla superficie mediale del collo del femore e nell’uso degli strumenti taglienti, così provocando la lesione vascolare dei vasi maggiori e minori; e avrebbe, inoltre, omesso di sottoporre il paziente, in presenza di grave anemia indicativa di una importante perdita ematica, poi esitata in shock ipovolemico, a revisione della ferita chirurgica, procedura che avrebbe palesato l’esistenza della lesione e imposto l’esecuzione di un intervento di sutura, in luogo della somministrazione di ben 17 sacche ematiche.

La Corte territoriale specificava che il primo giudice non aveva ravvisato il profilo di colpa attribuito all’imputato nella condotta attiva dell’aver cagionato la lesione, giudicata complicanza in sé prevedibile dell’intervento di artroprotesi, ma nell’avere egli omesso di procedere alla revisione chirurgica, una volta verificato che i valori dell’emoglobina continuavano a scendere sensibilmente.

Il nesso di causalità tra tale condotta e l’esito infausto era stato affermato sulla scorta di quanto accertato dal consulente del pubblico ministero, secondo cui il paziente, ove sottoposto a un attento controllo post operatorio e a un tempestivo intervento di revisione della ferita, sarebbe sopravvissuto con un quoziente di probabilità prossimo alla certezza, conclusione condivisa anche dal consulente del coimputato assolto, trattandosi peraltro di paziente senza problemi di tipo emodinamico.

Nel ricorrere per cassazione il professionista deduceva, tra gli altri motivi, che la Corte del merito non avesse minimamente vagliato le doglianze difensive prospettate nell’atto di appello. In particolare, la difesa aveva evidenziato che l’imputato era entrato in servizio alle ore 8:10 del 31/7/2013 e che, dall’ematocrito disposto, era risultato un lieve miglioramento del quadro ematico; il medico aveva lasciato l’ospedale alle ore 14:41, senza che si fossero manifestate condizioni tali da far presagire l’evoluzione poi manifestatasi e la necessità di eseguire una revisione della ferita; il peggioramento dei valori era stato riscontrato successivamente alle ore 17:50 del 31/7/2013, a due ore di distanza dall’allontanamento dell’imputato che aveva affidato il paziente alle cure di altri sanitari, i quali non avevano mai notiziato lo stesso dei risultati peggiorativi del prelievo pervenuti alle 17:50.

Per poter essere esigibile, la condotta omessa postulava la conoscenza del dato clinico, mancante nella specie. Pertanto, secondo la difesa, il rapporto terapeutico tra paziente e medico si era già interrotto al momento in cui il quadro clinico aveva manifestato quei segnali di allarme che avrebbero imposto la procedura di revisione chirurgica.

Il ricorrente, inoltre, aveva evidenziato la incongruità delle conclusioni cui era pervenuto il giudice d’appello nel ritenere che una revisione effettuata da altro sanitario, anch’egli presente la mattina del 1/8/2013, non avrebbe scongiurato l’evento, laddove la stessa considerazione non era stata svolta con riferimento all’imputato, anch’egli presente insieme al collega in quel frangente.

La Cassazione ha ritenuto il ricorso non meritevole di accoglimento, in quanto infondato.

La Corte territoriale, infatti, aveva richiamato il dato, non contestato, che il quadro ematico, nel momento in cui l’imputato si era allontanato dall’ospedale, non poteva considerarsi in remissione, sia per la modesta entità del miglioramento registrato la mattina del 31/7/2013, allorché erano già state somministrate numerose sacche ematiche; ma anche avuto riguardo al fatto che alle ore 11:50 di quello stesso giorno, allorché il medico era ancora in servizio, ne erano state trasfuse altre due, dato ritenuto incompatibile con l’asserito miglioramento delle condizioni del paziente.

Oltre a ciò, il Giudice di merito aveva posto in chiaro risalto il comportamento superficiale e approssimativo del medico che neppure aveva dato disposizioni ai colleghi subentranti in ordine alle condizioni del paziente. Quanto a tale argomento, peraltro, non coglieva nel segno l’osservazione difensiva che sembrava introdurre il diverso tema della successione delle posizioni di garanzia rispetto al paziente, a partire dal momento in cui l’imputato si era allontanato dall’ospedale il giorno successivo all’operazione.

La redazione giuridica

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