Il “tempo tuta” è stato qualificato come un’attività obbligatoria, accessoria, propedeutica e funzionale all’esecuzione della stessa prestazione lavorativa dando così diritto ad una retribuzione

Il “tempo tuta” o di vestizione-svestizione e la sua retribuzione è una questione divenuta sempre più dibattuta soprattutto durante questo periodo di pandemia. Infatti, consentire agli operatori del settore sanitario di lavorare in completa sicurezza, significa una maggiore garanzia per la loro salute così come per quella dei pazienti. Il tempo necessario alle relative operazioni dovrebbe essere sempre retribuito, basti pensare a quello occorrente per indossare anche i DPI (dispositivi di protezione individuale) a causa del Covid-19.

Il tempo di vestizione–svestizione è stato qualificato come un’attività obbligatoria, accessoria, propedeutica e strettamente funzionale all’esecuzione della stessa prestazione lavorativa, dando così diritto ad una retribuzione al di là del rapporto sinallagmatico che in molti casi però non viene riconosciuta dal datore di lavoro. Ciò ha comportato l’avvio di azioni giudiziarie da parte dei lavoratori, molte delle quali con esito favorevole proprio perché si tratta di un obbligo (di vestizione-svestizione) imposto al lavoratore dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene, riguardanti la gestione del servizio pubblico e la stessa incolumità del personale addetto e, pertanto, andrebbe remunerato in aggiunta alla normale retribuzione.

  1. Il “tempo tuta” è stato definito dalla Cassazione come una “attività integrativa dell’obbligazione principale e funzionale al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria”; trattasi di attività dovuta “per ragioni di igiene”, da effettuarsi negli stessi ambienti dell’Azienda e non a casa, prima dell’entrata e dopo l’uscita dai relativi reparti, rispettivamente, prima e dopo i relativi turni di lavoro.
  2. La Cassazione afferma che detta attività è svolta dai dipendenti non nell’interesse dell’Azienda, ma dell’igiene pubblica e come tale deve ritenersi in ogni caso implicitamente autorizzata da parte dell’Azienda a prescindere da un espresso provvedimento sul quale spesso il datore di lavoro “gioca” per tentare di evitarne il pagamento.
  3. Oggi le sentenze più recenti parlano di “eterodirezione implicita” quando, come nel caso degli infermieri e medici, l’obbligo di vestire e svestire la divisa risulti imposto da esigenze di igiene e sicurezza pubblica sicché il relativo uso deve ritenersi implicitamente autorizzato da parte del datore (Tribunale Bari sez. lav., 04/02/2020, n.623). Sostanzialmente, la giurisprudenza ha ribadito che l’eterodirezione può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa, ma anche risultare implicitamente dalla natura degli indumenti – quando gli stessi siano diversi da quelli utilizzati o utilizzabili secondo un criterio di normalità sociale dell’abbigliamento – o dalla specifica funzione che devono assolvere e così dalle superiori esigenze di sicurezza ed igiene riguardanti sia la gestione del servizio pubblico, sia la stessa incolumità del personale addetto.
  4. Si riportano alcune massime: “il tempo divisa costituisce lavoro effettivo (retribuibile) tutte le volte in cui risultava essere eterodiretto dal datore di lavoro, che dirige ed organizza, tra le altre, anche le modalità di esecuzione di tale operazione: in tal caso l’esatto adempimento preteso, anche in via implicita, dal potere datoriale non riguarda soltanto l’attività lavorativa in senso stretto, ma anche tutte quelle operazioni complementari o strumentali a quell’attività” (Cass. Civ. Sez. Lav. n.17635 dell’1.7.2019). La Cassazione con la predetta sentenza ha confermato i precedenti giurisprudenziali (Cass. n. 3901/2019; Cass. n. 12935/2018; Cass. n. 27799/2017) in cui è stato ribadito che le attività di vestizione/svestizione sono comportamenti integrativi della obbligazione principale e funzionali al corretto espletamento dei doveri di diligenza preparatoria.
  5. Il riconoscimento del diritto alla retribuzione aggiuntiva per il “tempo tuta” è già avvenuta anche con conciliazioni innanzi ad alcuni Tribunali del Lavoro (Livorno, Pisa, ecc.) con l’A.O.U. che ha riguardato gli arretrati degli ultimi cinque anni e l’accordo sui minuti del “tempo tuta”. Ed ancora, sempre a favore dei lavoratori: Tribunale Bari, 20.02.2020, n. 964; Tribunale Bari sez. lav., 22/09/2020, n.2595; Corte appello Milano, 24.01.2020, n. 2058; Tribunale Catania, 26.06.2019, n. 3188. Attualmente, inoltre, alcuni infermieri, assistiti dal sindacato di riferimento (USB – Esecutivo Nazionale Sanità) hanno avviato, per il riconoscimento di tale diritto, un giudizio nei confronti dell’Azienda datrice di lavoro, innanzi al Tribunale di Messina – Sez. Lavoro, il cui esito si spera sia in linea con i predetti riferimenti giurisprudenziali.

Avv. Fabrizio Cristadoro

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