Violazione delle norme di prevenzione sul lavoro

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La vicenda riguarda la richiesta di risarcimento dei danni presentata da una lavoratrice comunale per violazione delle norme di prevenzione e di sicurezza (Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, ordinanza 18 febbraio 2025, n. 4166).

Il caso

La Corte d’appello di Venezia ha accolto il gravame proposto dal Comune di Venezia e rigettato la domanda avanzata dalla dipendente comunale con mansioni, fino al 2016, di educatrice di asilo nido, ed in seguito, per riscontrata inidoneità alla mansione, di impiegata amministrativa – per ottenere il risarcimento dei danni per violazione delle norme di prevenzione di cui all’art. 2087 cc e delle norme di sicurezza tipiche, lamentando di aver sviluppato una malattia professionale (sofferenza discale lombare con lieve rigidità rachidea) nello svolgimento delle mansioni di operatrice di asilo nido, patologia riconosciuta di origine professionale da parte dell’INAIL.

Secondo i Giudici di appello il Comune avrebbe adottato tutti i comportamenti e le cautele che la tecnica e la scienza suggerivano nel momento storico, considerato che dalle risultanze di causa era emerso che l’ente avesse avuto conoscenza di un possibile rischio specifico soltanto a far data dal 2007.

Le norme di prevenzione prima del 2007

Questo significa che prima di tale data, non era configurabile un obbligo di sicurezza di questo tipo in capo al Comune, trattandosi di carichi inferiori ai limiti di legge e di movimenti per i quali non esistevano prescrizioni specifiche.

A partire dal 2007, la lavoratrice, che aveva seguito corsi di sicurezza, era stata sottoposta a sorveglianza sanitaria specifica e periodica e il Comune aveva provato la sostituzione degli arredi a sostituire gli arredi con altri nuovi ed ergonomici, sicché poteva escludersi l’imputabilità a fatto e colpa del datore di lavoro della patologia in menzione, peraltro di natura multifattoriale, avendo lo stesso posto in essere tutto quanto richiedibile per prevenirla.

La causa, su impulso della lavoratrice, finisce al aglio della Corte di Cassazione, che rigetta in toto.

L’intervento della Cassazione

Viene lamentato che la Corte avrebbe erroneamente escluso dati scientifici o epidemiologici aventi ad oggetto la nocività dell’attività lavorativa delle educatrici di asili nido e quindi la conoscibilità del rischio prima del 2007.

La censura non è meritevole di analisi perché riguarda la valutazione in ordine alle conoscenze scientifiche raggiunte prima del 2007 in base alle risultanze di causa, la cui motivazione, chiara in tal senso, non può essere vagliata.

In buona sostanza pare essere dinanzi a un’ipotesi di travisamento della prova. Secondo la ricostruzione sviluppata dalla ricorrente, risulterebbe dimostrata in bibliografia l’esistenza del rischio specifico per la lavorazione in esame prima del 2007. Sempre secondo la sua tesi, i Giudici di appello avrebbero escluso la violazione dell’obbligo di sicurezza da parte del Comune, nello specifico i Giudici avrebbero male interpretato la norma di chiusura del sistema perché, pur dando atto della intrinseca nocività posturale delle mansioni svolte, non hanno individuato la responsabilità del Comune per non aver posto in essere le misure atte a prevenire la patologia, anche prima del 2007.

Anche questa censura non è fondata. I Giudici avrebbero erroneamente omesso di accertare che, prima del 2007, le conoscenze dell’epoca non suggerivano particolari cautele in relazione all’attività lavorativa di educatrice degli asili nido, tanto più che il rischio si riduceva in ragione dell’età dei bambini accuditi.

Per i giudici non c’è violazione delle norme di prevenzione sul lavoro

Invero, i Giudici veneti hanno fatto corretta applicazione dei principi secondo cui “in materia di tutela della salute del lavoratore, l’art. 2087 cc, non delinea un’ipotesi di responsabilità oggettiva del datore di lavoro, i cui obblighi, oltre a dover essere rapportati alle concrete possibilità della tecnica e dell’esperienza, vanno parametrati alle specificità del lavoro e alla natura dell’ambiente e dei luoghi in cui il lavoro deve svolgersi, particolarmente quando vengono in questione attività che per loro intrinseche caratteristiche (svolgimento all’aperto, in ambienti sotterranei, in gallerie, in miniera, ecc.) comportano dei rischi per la salute del lavoratore (collegati alle intemperie, all’umidità degli ambienti, alla loro temperatura, ecc.), ineliminabili, in tutto o in parte, dal datore di lavoro.
Rispetto a detti lavori ‒ importanti una necessaria accettazione del rischio alla salute del lavoratore, legittimata sulla base del principio del bilanciamento degli interessi ‒ non è configurabile una responsabilità del datore di lavoro, se non nel caso in cui questi, con comportamenti specifici ed anomali, da provarsi di volta in volta da parte del soggetto interessato, determini un aggravamento del tasso di rischio e di pericolosità ricollegato indefettibilmente alla natura dell’attività che il lavoratore è chiamato a svolgere”.

In tal senso non è pertinente la documentazione scientifica in atti depositata dalla lavoratrice, da cui si evincerebbe che era esigibile, prima del 2007, una diversa diligenza nella predisposizione di azioni precauzionali e preventive e/o di misure di sicurezza innominate a fronte dei fattori di rischio cui era esposta la dipendente.

Prima del 2007 non c’era obbligo di prevenzione

Il Giudice d’appello, all’esito dell’accertamento di fatto, ha evidenziato che nel periodo anteriore al 2007 non sono emersi elementi probatori sufficienti per ritenere che da parte del datore di lavoro fosse conoscibile ed esigibile la necessità di adottare misure organizzative finalizzate alla riduzione del rischio di sovraccarico delle educatrici, anche a fronte della natura multifattoriale della patologia per cui è causa, riscontrabile anche in soggetti non svolgenti questa tipologia di prestazioni” (così, specificamente, a § 14 della sentenza).
Ed ha poi aggiunto, in altro passaggio argomentativo della pronuncia, che la consapevolezza anche da parte degli operatori ‒ medici competenti e medici del lavoro ‒ che l’adozione di determinate posture ovvero di arredi ergonomici potesse ridurre il verificarsi del danno in soggetti che svolgevano la stessa professione della ricorrente era stata acquisita soltanto in anni recenti (dopo il 2011 secondo il convegno di Venezia), anche a fronte di dati statistici non rilevanti (v. sentenza § 16 e § 15, dove si richiama l’esito della riunione per la sicurezza del 2009 da cui si desume l’assenza di dati sull’attività delle educatrici degli asili nido, prevedendo “la normativa la movimentazione di carichi kg. 15 per le donne e kg. 25 per gli uomini (e) nella realtà specifica i bambini normalmente sono al di sotto di questi pesi”).

È ben vero che i Giudici di secondo grado hanno argomentato della possibilità di riduzione del rischio lavorativo, ma pur sempre in relazione “alle conoscenze acquisite in base al progresso tecnico”, che sole consentono di cogliere quei fattori di rischio della lavorazione e di approntare i dovuti interventi precauzionali per eliderli o ridurli.

Il ricorso è inammissibile

In definitiva, e in altri termini, dall’iter argomentativo della Corte territoriale si desume che, ove pure si volesse individuare uno specifico inadempimento datoriale da parte del Comune rispetto alla mancata predisposizione del documento di cui all’art. 4 del D.Lgs. n. 626 del 1994, questo sarebbe irrilevante, in quanto avrebbe carattere meramente formale e se ne dovrebbe escludere l’incidenza sostanziale. Ciò perché, come già detto, prima del 2007 non era stato ancora acclarato dalla scienza medica il rischio specifico connesso alle mansioni solitamente svolte dalle educatrici.

In conclusione, il ricorso viene dichiarato inammissibile.

Avv. Emanuela Foligno

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