Ansia e panico causati da messaggi e fotografie sgradevoli sono comportamenti idonei ai fini della condanna per stalking.

Ansia e panico , ma anche minacce rivolte alla famiglia di origine della donna sono stati ritenuti elementi dirimenti ai fini della condanna per stalking (Cass. pen., sez. V, dep. 10 maggio 2022, n. 18455).

Messaggi e fotografie sgradevoli inviate alla moglie che, accusa disturbi di ansia e panico che l’avevano già colpita in passato, sempre a causa dei comportamenti molesti del coniuge.

L’uomo viene ritenuto colpevole del reato di stalking.

Determinante ai fini della condanna è stata anche la paura manifestata dalla donna per sé stessa e per i propri familiari, sino al punto di dovere modificare le proprie abitudini di vita.

I Giudici di merito condannano l’uomo per atti persecutori sia in primo grado, che in secondo grado.

Decisivo il riferimento alle dichiarazioni della donna, parte offesa, che ha rimarcato come il perdurare dello stato di ansia e panico l’abbiano costretta addirittura a cambiare le proprie abitudini di vita.

L’uomo ricorre in Cassazione lamentando “violazione del diritto di difesa”.

Secondo il ricorrente,  vi sarebbe «un convincimento del Consigliere relatore formatosi prima della discussione orale, tale da costituire ragione di pregiudizio per la strategia difensiva».

Deduce, inoltre,  «la inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa», anche in merito alla «paternità dei messaggi a lei inviati tramite l’applicazione WhatsApp», e, soprattutto, sostiene che «il riattivarsi delle crisi di ansia e panico, di cui aveva già sofferto in passato la persona offesa, non sarebbero in rapporto di derivazione causale con i comportamenti censurati, costituiti dall’invio di una serie di messaggi e di fotografie in un arco temporale, comunque limitato di soli cinque giorni».

Gli Ermellini chiariscono, innanzitutto, che anche se «la redazione dei motivi a sostegno della decisione impugnata avesse preceduto la discussione orale, non vi sono riferimenti concreti allo specifico e reale pregiudizio dei diritti di difesa subito dall’uomo. Inoltre, aggiungono, «non dà luogo neppure a ricusazione del giudice l’avere, quest’ultimo, approntato uno schema o appunto di decisione quale ipotesi di studio sul modo in cui potranno essere risolte le questioni giuridiche sub iudice, ancorché da essa sia desumibile una futura scelta decisoria. Trattasi, difatti, di attività, annoverata tra quelle preparatorie, non preclusa, poiché scevra da insuperabile preconcetto e non implicante un sospetto di parzialità».

Riguardo l’attendibilità del racconto della persona offesa, ne viene ribadita la idoneità,  e vengono ritenute prive di pregio le deduzioni circa la mancanza di prova certa quanto alla riconducibilità all’uomo dei messaggi ricevuti dalla donna.

Ad ogni modo, le dichiarazioni della persona offesa, viene sottolineato, possono essere legittimamente poste da sole a fondamento dell’affermazione di penale responsabilità dell’imputato, previa verifica, corredata da idonea motivazione, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto.

Il riferimento contenuto nei messaggi, ad alcune particolari circostanze, come la posizione lavorativa dell’uomo e la presenza di alcuni gatti nella casa della persona offesa, denota «una specifica conoscenza della vita familiare» e conferma che ad inviare i messaggi sia stato l’uomo.

Infine, la Corte sottolinea che ai fini della configurazione del reato di atti persecutori compiuto  è «non solo la ricomparsa degli attacchi di ansia e panico di cui la persona offesa aveva già sofferto in passato», ma anche «il fondato timore per l’incolumità propria e dei familiari, alimentato in lei dalle minacce di morte rivolte ai suoi genitori, i quali, tra l’altro, avevano subito il danneggiamento della loro autovettura e dello zerbino posto all’ingresso della abitazione, trovato bruciato».

Tutti questi comportamenti, si sono riverberati sulle abitudini di vita della donna, che, per proteggersi da eventuali aggressioni del marito, si faceva accompagnare sul luogo di lavoro.

Confermate, quindi, le statuizioni di merito, il ricorso viene rigettato perché inammissibile e il ricorrente viene condannato al pagamento delle spese di giudizio e al pagamento dell’importo di euro tremila a favore della Cassa Ammende.

Avv. Emanuela Foligno

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