Non può essere accolta la richiesta di risarcimento danni per demansionamento e mobbing presentata dal lavoratore, se la domanda non è supportata da elementi concreti, caratterizzanti il comportamento illecito
La vicenda
Con ricorso al Tribunale di Cagliari la dipendente di un ipermercato aveva citato in giudizio la società titolare dell’esercizio commerciale, lamentando di avere subito una serie di comportamenti asseritamente illeciti (nella specie, il demansionamento) da parte di quest’ultima.
In particolare deduceva di essere stata assunta quale cassiera e di avere svolto tale mansione fino al marzo 2004, quando era stata spostata ai reparti commerciali di vendita, per essersi rifiutata di prestare attività nelle giornate di domenica; era stata così adibita – a sua detta – a mansioni dequalificanti e gravose, incompatibili col suo stato di salute, in assenza di preventiva visita di idoneità e senza mezzi individuali di protezione; svolgendo compiti che erano in contrasto con le prescrizioni del medico competente, osservando un orario di lavoro diverso e deteriore rispetto a quello contrattualmente pattuito.
Deduceva inoltre una serie di comportamenti datoriali scorretti (il rifiuto della società di consegnarle la copia delle timbrature richieste; il rifiuto di consegnarle la copia del referto del medico competente; il rifiuto di concederle un periodo di ferie richieste; l’adozione di provvedimenti disciplinari a seguito di contestazioni infondate; l’atteggiamento umiliante tenuto da parte della Responsabile Risorse Umane a maggio 2005, per essersi rifiutata di seguire un orario articolato su turni) e chiedeva, pertanto, la condanna della società al risarcimento del danno da demansionamento e mobbing, oltre a differenze retributive, comprese indennità cassa e maneggio denaro.
In primo grado, il Tribunale accoglieva parzialmente la domanda, condannando la società al pagamento di Euro.28.695,76 per danno biologico e morale, rigettando le ulteriori domande.
La Corte d’appello di Cagliari ribaltava l’esito del processo, accogliendo il gravame della società datrice di lavoro e respingendo tutte le domande della lavoratrice. Cosicché la vicenda è giunta in Cassazione.
Ma i giudici della Suprema Corte (Sezione Lavoro, n. 2004/2020) hanno rigettato il ricorso, confermando la pronuncia di merito. Invero, i motivi di impugnazione erano inammissibili, in quanto “oltre a censurare accertamenti ed apprezzamenti di fatto svolti dalla sentenza impugnata”, non chiarivano perché la sentenza avrebbe dovuto essere cassata ed inoltre, gli isolati episodi contestati – a detta degli Ermellini – non potevano ritenersi idonei a concretare il dedotto generale comportamento vessatorio della società ed il dedotto diritto al risarcimento del relativo danno, peraltro neppure meglio specificato.
La redazione giuridica
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