Esposizione all’amianto e concausalità, il datore risponde anche se l’effetto non era noto

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Esposizione all'amianto e decesso del lavoratore per mesotelioma

La mancanza di prevedibilità dell’evento in capo alla parte datoriale in ragione delle assenti conoscenze degli effetti dell’esposizione all’amianto negli anni sessanta del secolo scorso rendeva impossibile l’adozione delle misure di protezione individuali adeguate ed idonee alla prevenzione del rischio (Corte di Cassazione, IV – Lavoro civile, ordinanza 10 giugno 2025, n. 15508).

I fatti

Entrambi i Giudici accolgono le domande di moglie e figli, del de cuius: a) di accertamento della responsabilità del datore di lavoro, Ministero della Difesa, per il danno iure proprio dagli stessi sofferto per la morte del proprio congiunto, cagionata da mesotelioma pleurico contratto in conseguenza dell’esposizione all’amianto sofferta durante l’attività lavorativa svolta alle dipendenze della predetta amministrazione. b) di condanna al risarcimento del danno subito dagli eredi iure proprio, quantificato in Euro 270.000 in favore della moglie e Euro 200.000 in favore di ciascuno dei due figli.

Il secondo grado ha confermato la sussistenza del nesso causale fra l’esposizione all’amianto nell’ambiente lavorativo e l’insorgenza della malattia che aveva poi portato al decesso del lavoratore. Oltre al nesso eziologico, era provata anche la violazione delle regole di cautela (nessuna forma di protezione essendo stata adottata) e, quindi, l’inadempimento del Ministero, rimarcando altresì al riguardo che lo stato delle conoscenze dell’epoca già imponeva di adottare precauzioni che limitassero l’esposizione alle fibre di amianto nei luoghi di lavoro.

L’intervento della Cassazione

Il Ministero lamenta l’erroneità della sentenza di appello per le seguenti ragioni: a) la ritenuta equivalenza causale, nel cagionare la malattia, dell’esposizione all’amianto nel periodo in cui il de cuius ha lavorato alle dipendenze del Ministero e di quella sofferta nei periodi anteriori nei quali ha lavorato alle dipendenze di altre parti datoriali. La mancata e/o erronea applicazione del principio eziologico cd. del “più probabile che non”. Il mesotelioma, secondo quanto osservato dal CTU nel proprio elaborato, rimarca il Ministero nel motivo, ha una latenza media di 48 anni, con la conseguenza che l’esposizione rilevante ai fini della contrazione della malattia – manifestatasi nel 2012 – è quella anteriore al 1965, laddove D.P.S. cominciò a lavorare per il Ministero solo nel 1967, con conseguente irrilevanza causale delle condotte datoriali del Ministero della difesa.
La mancanza di prevedibilità dell’evento in capo alla parte datoriale in ragione delle assenti conoscenze degli effetti dell’esposizione all’amianto negli anni sessanta del secolo scorso, sicché non era possibile per il Ministero disporre misure di protezione individuali adeguate ed idonee alla prevenzione del rischio de quo vertitur. Su tale specifico aspetto, alla luce di quanto affermato nella CTU, le uniche misure che la parte datoriale poteva porre in campo (ex L. n. 445 del 1993 e D.P.R. n. 303 del 1956) non erano sufficienti per loro natura a prevenire una malattia all’epoca non conosciuta.

La concausalità della condotta datoriale del Ministero

La sentenza di appello ha infatti sul punto espressamente affermato che: “…il Tribunale, raccogliendo le conclusioni del CTU, ha affermato che ciascuno dei due periodi indicati (n.d.r. ossia quello prestato alle dipendenze di ditte in appalto e quello prestato alle dipendenze del Ministero) è stato anche da solo di entità sufficiente a causare la malattia in misura ‘più che probabile che non’. Solamente l’individuazione di una causa diversa da quella riscontrata nel lavoro svolto presso il Ministero appellante, quindi di una causa alternativa ed idonea ad interrompere il predetto nesso eziologico, potrebbe escludere la responsabilità del predetto Ministero”.

Orbene, la doglianza non è posta in relazione con la motivazione resa dal secondo Giudice di merito, ovvero la necessità, al fine di escludere la concausalità della condotta datoriale del Ministero, dell’individuazione di una causa sopravvenuta, alternativa, da sola idonea ad interrompere il nesso causale.

In tema di nesso causale resta fermo il diverso regime probatorio tra il processo penale e civile

Quanto deciso dai Giudici di merito è conforme al consolidato principio secondo il quale “in tema di nesso causale, pur applicati nella verifica dello stesso tra la condotta illecita ed il danno i criteri posti dagli artt. 40 e 41 c.p., resta fermo il diverso regime probatorio tra il processo penale, ove vige la regola della prova “oltre il ragionevole dubbio”, e quello civile, in cui opera la regola della preponderanza dell’evidenza o “del più probabile che non”.

Ed ancora “in tema di infortuni sul lavoro, quando un danno di cui si chiede il risarcimento è determinato da più soggetti, ciascuno dei quali con la propria condotta ha contribuito alla produzione dell’evento dannoso, si configura una responsabilità solidale ai sensi dell’art. 1294 c.c. fra tutti costoro, qualunque sia il titolo per il quale ciascuno di essi è chiamato a rispondere, dal momento che, sia in tema di responsabilità contrattuale che extracontrattuale, se un unico evento dannoso è ricollegabile eziologicamente a più persone, è sufficiente, ai fini della responsabilità solidale, che tutte le singole azioni od omissioni abbiano concorso in modo efficiente a produrlo, alla luce dei principi che regolano il nesso di causalità ed il concorso di più cause efficienti nella produzione dei danni (patrimoniali e non) da risarcire”.

La sussistenza del nesso causalità tra il fattore di rischio e la malattia

Nella medesima scia, può essere richiamata Cass. n. 28458 del 5/11/2024, che stabilisce, in tema di risarcimento del danno, che una volta accertata la presenza di uno dei fattori di rischio (nel caso di specie l’esposizione all’amianto), che scientificamente si pongono come idonei antecedenti causali della malattia, prima, e del decesso, poi, va affermata la sussistenza del nesso di causalità tra quel fattore di rischio e la malattia e quindi il decesso, anche eventualmente in termini di concausalità, in presenza della non occasionale esposizione all’agente patogeno, di determinate modalità di esecuzione della prestazione lavorativa, dell’assenza di strumenti di protezione individuale, salvo che sussista altro fattore, estraneo all’attività lavorativa e/o all’ambiente lavorativo, da solo idoneo a determinare la malattia e/o, poi, il decesso.

Difatti, il concorso di cause non preclude l’indagine sulla responsabilità del soggetto. Ad ogni modo, nel ricorso i familiari della vittima non riportano la affermazione del CTU, secondo la quale il periodo di latenza del mesotelioma sarebbe almeno di 48 anni e dunque tale da escludere la rilevanza temporale – in ragione della data di insorgenza della malattia – del periodo di lavoro prestato alle dipendenze del Ministero, con conseguente violazione del principio di specificità di cui all’art. 366 c.p.c.

La consapevolezza della nocività dell’esposizione all’amianto

Orbene, la decisione impugnata afferma che la consapevolezza della nocività dell’esposizione all’amianto sussisteva fin dai primi del Novecento, e che in caso di mesotelioma non v’è ragione di escludere il rapporto di causalità con l’evento, né il requisito della prevedibilità dello stesso per il fatto che il rischio cancerogeno sia stato conosciuto solo successivamente, in quanto le misure di prevenzione da adottare per evitare l’insorgenza di una malattia invece da tempo nota come l’asbestosi erano identiche a quelle richieste per eliminare o ridurre gli altri rischi non conosciuti.

Infine, per completezza espositiva, corrette sono anche le ragioni per le quali la Corte territoriale ha ritenuto, utilizzando quale parametro le Tabelle di Milano, di liquidare il danno parentale sofferto dagli eredi iure proprio in misura superiore al minimo, valorizzando non solo lo stretto rapporto di parentela, tra gli eredi (moglie e figli) ed il de cuius, ma anche l’età relativamente giovane, 63 anni, della moglie, al momento della perdita del marito, oltre che “la sofferenza di chi è colpito da mesotelioma pleurico, correlata alla natura della patologia, caratterizzata dalla grave e protratta compromissione della funzione respiratoria, che aggrava e rende particolarmente lacerante e dolorosa per i congiunti l’assistenza e l’accompagnamento del familiare fino al decesso e il ricordo nel tempo di tale agonia.

Conclusivamente la Cassazione rigetta il ricorso.

Avv. Emanuela Foligno

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