HCV positivo a seguito di ricovero: il nesso di causa fra la prestazione chirurgica e l’infezione è sufficiente per stabilire la responsabilità della Struttura, a prescindere dalla individuazione dello specifico elemento che ha svolto il ruolo causale (Cassazione Civile, sez. III, sentenza n. 7388/2021 depositata il 16/03/2021).
HCV positivo a seguito di intervento chirurgico di ernioplastica. Il paziente conveniva a giudizio la Struttura per sentirla condannare al risarcimento dei danni inerenti l’infezione da epatite C.
Il Tribunale di Napoli rigettava la domanda ritenendo che “gli anticorpi anti-HCV sono rilevabili solo dopo 4-6 mesi dal contagio e che il test effettuato dal paziente aveva in realtà rilevato un contagio avvenuto in epoca antecedente al ricovero e all’intervento“.
La Corte d’Appello di Napoli, disponeva ulteriore CTU Medico-Legale e riformava la sentenza di primo grado rilevando – fra l’altro – che, all’epoca dei fatti, erano già in uso i test di seconda generazione che prevedevano un periodo finestra convenzionale di 2-6 mesi, per cui risultava condivisibile la conclusione del secondo CTU secondo cui “i tempi di rilevamento degli anticorpi anti HCV (quindici settimane) sono da considerarsi congrui con l’assunto che causa del contagio possa essere l’intervento chirurgico”, cosicchè appariva “più probabile che non il nesso causale tra il contagio da virus da epatite C e l’intervento di ernioplastica”, tenuto conto che era documentata la negatività al virus, che gli interventi chirurgici sono riconosciuti nella letteratura scientifica tra le cause più probabili di infezioni da HCV e, inoltre, che non v’era prova che il paziente si fosse sottoposto a dialisi o trasfusioni ematiche o a trattamenti con emoderivati e che nulla induceva a ritenere che lo stesso fosse tossicodipendente”.
Pertanto, la Corte d’Appello condannava la Struttura al risarcimento dei danni, essendo accertato che il paziente diveniva HCV positivo a seguito di ricovero, stimati in euro 134.122,15.
Il paziente ricorre in Cassazione lamentando la riduzione dal 30% (stimato dal primo CTU) al 22% (stimato dal secondo CTU) dei postumi permanenti riconosciuti.
Il paziente evidenzia che la Corte ha fondato la riduzione dei postumi permanenti sulla circostanza che il quadro patologico accertato dai due Consulenti a distanza di oltre nove anni era sostanzialmente sovrapponibile, con un ingrossamento del fegato di appena 0,5 cm (sì da potersi presumere che l’aggravamento dell’epatite sarebbe avvenuto in un lasso di tempo più lungo rispetto a quello ipotizzato dal primo CTU).
Gli Ermellini disattendono le doglianze.
Essendo stato sostenuto dal paziente di essere diventato HCV positivo a seguito di ricovero, l’accertamento del rapporto causale deve essere compiuto rispetto alla complessiva prestazione sanitaria, e il nesso può ben essere affermato anche se non sia possibile individuare quale specifico segmento della prestazione abbia determinato il danno, purchè risulti provato secondo il criterio della preponderanza dell’evidenza che causa del danno sia stata proprio la prestazione sanitaria.
La Corte d’Appello ha affermato la responsabilità della Casa di Cura escludendo che il contagio del paziente possa essersi verificato prima del ricovero e la Corte di Cassazione ritiene corretta la decisione.
In conclusione la Suprema Corte rigetta il ricorso principale del paziente e quello incidentale della Struttura sanitaria, confermando la sentenza d’Appello.
Avv. Emanuela Foligno
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