Prima di arrivare a parlare della normativa vigente in materia di adozione, mi sembra opportuno delineare, sia pure per sommi capi, l’origine e l’evoluzione culturale e giuridica dell’istituto in parola.

Di adozione si inizia a parlare nel 2000 a.C. A Babilonia, nel Codice di Hammurabi, poco più tardi se ne trovano riferimenti nella Sacra Bibbia, ma il vero e proprio sviluppo avvenne con la nascita e la diffusione del diritto romano.

Oltre all’acquisto della patria potestà sui figli per nascita, essa si poteva acquistare su di un soggetto tramite, appunto l’adozione: l’adrogatio ne rappresenta la forma più antica. Adrogante, poteva essere solo il partner che non avendo figli propri e quindi essendo privo di discendenza, intendeva crearne una “artificialmente”. Adrogato poteva, invece, essere in un primo tempo, solo l’individuo maschio e pubere, in seguito, per disposizione di Antonino Pio, fu estesa anche ad un impubere.

Non si poteva adrogare più di una persona e l’adrogatio era un atto politico sacrale. Per effetto dell’adrogatio, l’arrogato diveniva filius dell’arrogante e, oltre ad essere soggetto alla sua potestà, insieme al resto del nucleo familiare esso, ne acquisiva anche la legittimazione a partecipare del suo eventuale patrimonio.

Si capisce bene, come in epoca primitiva questo istituto aveva importanza e funzione diversa per nulla paragonabile all’adozione moderna, giacché serviva ad evitare l’estinzione della famiglia.

Alla caduta dell’Impero Romano d’occidente, ed in particolare nell’alto Medioevo, l’adozione romana perse importanza sino quasi a scomparire.

Solo in epoca più recente il Codice napoleonico recupera l’istituto con finalità ispirata al modello romanistico, ovverosia quella di assicurare una discendenza all’adottante.

Il Code venne assunto ad esempio per la stesura della normativa civile in molti Paesi d’Europa e così anche l’Italia si dotò nel 1865 di specifiche norme in materia di adozione.

L’influenza del codice napoleonico fu così grande che per molti anni anche in Italia, era proibito adottare bambini. Il codice civile nel Regno, promulgato da Vittorio Emanuele II il 25 giugno 1865 ed entrato in vigore il 1° gennaio 1866 stabiliva che il minore non poteva essere adottato se non avesse compiuto l’età di diciotto anni.

Le cose non cambiarono con il Codice civile del 1942, ove si riconfermò la “funzione” dell’adozione quale strumento di perpetrazione ideale della stirpe e continuità della famiglia. Nella sua originaria formulazione, infatti, l’istituto dell’adozione era modellato esclusivamente su adottati maggiorenni e adottanti di età non inferiore ai 50 anni.

I primi cambiamenti arrivarono soltanto nel 1967, allorquando venne approvata la legge n. 431 in materia di adozione speciale. La normativa in parola inserì all’interno del vecchio codice, circa una trentina di articoli destinati ad incidere profondamente sul processo di adozione. I due concetti di base erano molto semplici, ma al tempo stesso, decisamente rivoluzionari: il minore senza famiglia aveva diritto ad averne una nuova; l’adozione serviva a dare una famiglia al bambino in stato di abbandono e non a dare un figlio ad una coppia senza prole.

Quest’ultimo punto, come è evidente, è di fondamentale importanza perché per la prima volta veniva riconosciuto, sia pure non espressamente, il minore quale soggetto portatore di bisogni e diritti fondamentali, che è compito e dovere dell’ordinamento giuridico rispettare e garantire, in linea con gli standards internazionali.

È chiaro dunque, che la legge 431/67 ha avuto una funzione completamente diversa, perché ha inteso tutelare non interessi patrimoniali o di discendenza, ma dare una famiglia al minore che ne fosse privo e che versasse in una situazione di privazione di adeguate cure affettive.

Uno dei princìpi fondamentali della citata normativa (che poi ha trovato espresso riconoscimento anche nella successiva legge 184) è stata proprio la solenne proclamazione, fatta nell’art. 1, secondo cui il minore ha il diritto di essere educato nell’àmbito della propria famiglia.

La normativa, in verità, riconosce al minore due diritti, il primo, il diritto all’educazione ed il secondo, il diritto ad una propria famiglia, diritti collegati, ma tra loro distinti.

Ebbene, quando si dice che il minore ha il diritto ad una propria famiglia, si intende il diritto di quest’ultimo a far parte d’una formazione sociale che l’accolga al suo interno perché gli venga impartita l’educazione, la famiglia, considerata l’unica “organizzazione”, veramente in grado di stimolare il processo di sviluppo e maturazione della sua personalità.

Ora, però, questo principio solennemente sancito nell’art. 1, pur essendo di estrema importanza, non può essere inteso in maniera assoluta. Mi spiego.

Nulla questio circa il diritto del minore a vivere (esclusivamente ?) nella propria famiglia biologica, ma siffatta esigenza deve essere contemperata ed armonizzata con un altro principio altrettanto fondamentale: tutto ciò deve avvenire nell’esclusivo e preminente interesse dello stesso a vedere assicurata la propria crescita in un’idonea famiglia: si dovrà dire allora che il minore ha il diritto di essere educato preferibilmente nell’ambito della propria famiglia biologica, in assenza di specifiche controindicazioni.

Tale interpretazione, trova in verità le proprie radici nella Costituzione.

Per l’art. 30 Cost. è dovere e diritto dei genitori mantenere, istruire ed educare i figli, anche se nati fuori del matrimonio. Nei casi di incapacità dei genitori, la legge provvede a che siano assolti i loro compiti.

Il concetto di incapacità dei genitori si comprende meglio ponendo l’art. 30 in combinato disposto con l’art. 3 Cost., secondo cui è compito della Repubblica rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che, limitando di fatto la libertà e l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana e l’effettiva partecipazione di tutti i lavoratori all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese. Il pieno sviluppo della persona umana (art. 3, comma 2 Cost.) costituisce un diritto assoluto ed inviolabile dell’uomo, sia come singolo, sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.).

Ebbene, quanto al minore, lo sviluppo della sua personalità, può essere realizzato innanzitutto garantendogli il diritto ad una famiglia idonea a fornirgli la “giusta” educazione. La famiglia è, dunque e in questo senso, tutelata non in sé, ma come strumento ultimo per strutturare la personalità dei propri membri. Ma allora è azzardato ritenere che i genitori, possano vantare un diritto assoluto ed intangibile sui propri figli. Al contrario, essi possono pretendere di educarli a preferenza di chiunque altro soltanto a condizione che siano in grado di adempiere ai loro doveri, ossia solo se, in quanto e sino in grado di assolvere adeguatamente la necessaria funzione educativa.

La legge 431/76, ebbe il merito di introdurre espressi requisiti relativi ora, alla condizione civile degli aspiranti genitori (adottandi potevano essere solo una coppia di coniugi non separati nemmeno di fatto) e, ora alla condizione del minore, comunque di età inferiore agli 8 anni, che fosse stato dichiarato in stato di abbandono dal Giudice Minorile.

Tuttavia, il cambiamento economico, sociale e culturale proprio degli anni ‘60/70, unitamente al contemporaneo cambiamento del modo di intendere la famiglia e all’introduzione di nuovi modelli e stili di vita, resero prematuramente obsoleta la legge n. 431. Si registrò in quegli anni, una consistente riduzione del numero di minori abbandonati e ciò sia per una più capillare diffusione del servizio sociale, per le accresciute disponibilità economiche e per una indubbia flessione sulla natalità.  L’adozione speciale aveva inoltre contribuito a svuotare gli istituti che ospitavano minori orfani. Di fronte ad una sempre maggiore richiesta di bambini, ed ad una contestuale riduzione del numero dei minori disponibili in Italia cominciò a svilupparsi un fenomeno nuovo, quello dell’adozione internazionale.

A disciplinare l’adozione internazionale per la prima volta fu, poi, la legge 184/1993 di grande rilevanza sociale, la quale portò nel nostro ordinamento un gruppo di norme specifiche anche di diritto internazionale privato.

L’obiettivo primario perseguito dal legislatore era quello di eliminare e combattere il mercato di bambini del Terzo Mondo che, fino a non poco tempo prima, venivano in Italia senza il previo controllo sulla idoneità affettivo-pedagogica delle coppie, che si recavano all’estero a prenderli.

Non solo. La citata legge per la prima volta, distingueva tra l’adozione in Italia di minori stranieri e l’espatrio di minori italiani a scopo di adozione estera; in quest’ultimo caso la legge si limita a prevedere, il compimento di non poche adempienze, quasi sempre di natura burocratica, per il nostro personale consolare, riservando ai nostri giudici minorili, l’accertamento – per nulla semplice – della situazione di abbandono del minore italiano, e la (altrettanto problematica) emanazione di provvedimenti temporanei ed adeguati nel suo interesse.

Quello che accadeva, ahimè molto spesso, era l’idea di guardare all’adozione di un minore straniero, come “ripiego” per tutte quelle coppie che non riuscivano ad ottenere un bambino italiano e così, si rivolgevano, in seconda istanza, alla adozione internazionale; o ancora meglio, molto spesso accadeva che venivano presentate contemporaneamente entrambe le richieste (adozione interna e internazionale) per avere maggiore possibilità di successo.

Sulla scorta di questa tendenza, si era avvertita l’esigenza di un rinnovamento e soprattutto di avviare un processo di formazione della cultura in materia.

Se infatti la disciplina, in generale, prevede una identità di requisiti per accedere all’adozione sia che si tratti di quella interna che quella internazionale (idoneità ad educare, istruire, mantenere …), un dato non può essere, tuttavia, trascurare. Non si può nascondere, cioè, come è indubbio che la adozione di un minore straniero richieda una necessaria conoscenza della “cultura” e della “storia” diversa di cui questi è portatore, ed, in particolare, la consapevolezza che l’origine straniera del figlio richiede per i genitori un compito non più facile, come spesso avvertito (ad esempio per il fatto che non potranno mai essere raggiunti dai genitori naturali), ma più difficile dell’identica situazione di allevamento di un bambino italiano. Possono infatti presentarsi problemi particolari, sia nell’inserimento familiare e ambientale del piccolo straniero, sia nell’inserimento scolastico e, in seguito, professionale.

Orbene, una delle principali critiche che furono mosse alla legge 184/83 fu propria la seguente: mentre, infatti, per l’adozione d’un minore italiano la legge 184 aveva abrogato la c.d. adozione nominativa (d’un minore ben individuato), siffatta possibilità di adozione nominativa, non era stata altrettanto esclusa per l’adozione dei minori stranieri. mancando nell’adozione internazionale la c.d. fase di abbinamento, in quanto il T.m. si limitava a dichiarare (col decreto ex art. 30) la coppia idonea (o inidonea) all’adozione internazionale ed interveniva successivamente (dopo l’ingresso del minore straniero in Italia) per “delibare” il provvedimento straniero ex art. 32 l. 184 come adozione o affido preadottivo.

La legge 184/83 lasciava, in altre parole, sostanzialmente liberi gli aspiranti genitori adottivi di scegliersi il minore da adottare, consentendo agli stessi di recarsi nel Paese prescelto, di prendere contatti con famiglie o istituzioni di assistenza (direttamente, o tramite intermediari di pochi scrupoli) e di prendere un minore (spesso di età il più piccolo possibile, o rispondente ai loro desideri) senza controlli pubblici e con l’altra possibilità di fomentare il fiorente mercato dei bambini. A tale inconveniente ha inteso ovviare la predetta Convenzione dell’Aja, disponendo che, perché si faccia luogo all’adozione internazionale (trasferimento del minore dal Paese di origine a quello di accoglienza o Paese ricevente), è necessario che le competenti Autorità dello Stato di origine abbiano dichiarato lo stato di adottabilità del minore ed abbiano constatato, dopo aver debitamente vagliato le possibilità di affidamento del minore nello Stato di origine, che l’adozione internazionale corrisponda al suo superiore interesse e che le stesse Autorità abbiano accertato che persone, istituzioni, autorità, tenute a prestare il consenso ai fini dell’adozione, abbiano usufruito di adeguata consulenza e siano state informate pienamente sugli effetti del consenso e dell’adozione (specie nell’ipotesi di cessazione di ogni vincolo con la famiglia di origine), nonché che abbiano prestato liberamente il proprio consenso.

Quanto ai requisiti degli aspiranti genitori adottivi, l’art. 5 della Convenzione dispone che l’adozione internazionale può aver luogo solo se le autorità competenti dello Stato di accoglienza abbiano constatato che i futuri genitori adottivi siano idonei all’adozione.

Nella specie, si esclude che una coppia convivente non sposata o la persona singola, non coniugata, possa accedere alla richiesta di adozione.

È necessario che gli adottanti siano uniti in matrimonio da almeno tre anni (dopo la novella rientra nel computo anche il periodo di convivenza more uxorio patrimoniale, purché, avito riguardo a tutte le circostanze del caso concreto, il tribunale per i minorenni accerti la continuità e la stabilità della convivenza); che tra essi non sussista separazione neppure di fatto; che si tratti di soggetti idonei ad educare ed istruire ed in grado di mantenere i minori che intendono adottare; che la loro età superi di almeno diciotto anni e non più di quarantacinque anni quella dell’adottando, in base al principio secondo cui adoptio naturam imitatur. Il rispetto del limite di età, che va verificato singolarmente per ciascun coniuge, è tuttavia derogabile, qualora il tribunale per i minorenni accerti che dalla mancata adozione derivi un danno grave e non altrimenti evitabile per il minore.

In nome del principio di autodeterminazione del minore dotato di discernimento, il consenso del minore ha effetto vincolante, qualora abbia compiuto i quattordici anni, sia per l’adozione (artt. 7, 2° comma e 25, 1° comma), sia per l’affidamento preadottivo (art 22, 6° comma ). Inoltre, il giudice deve sentire il minore che abbia compiuto i dodici anni, in merito alle medesime deliberazioni (rispettivamente art. 7, 3° comma e art. 22, 6° comma), nonché nella fase di accertamento della situazione di abbandono ed in quella di deliberazione dell’affidamento preadottivo e dell’eventuale revoca del medesimo (art. 23, 1° comma). Infine, va sentito il minore anche al si dotto dei dodici anni, in considerazione della capacità di discernimento che egli dimostri.

Ulteriore requisito preliminare inderogabile perché possa farsi luogo all’adozione è l’accertamento dello stato di adottabilità del minore in situazione di abbandono (arrt. 7 ss legge cit.).

Lo stato di abbandono consiste nella privazione, anche incolpevole, dell’assistenza materiale e morale da parte dei genitori naturali, tale da far risultare il minore “privo” di una propria famiglia, anche in ipotesi in cui questa esista materialmente.

Anche la situazione di abbandono dovuta a forza maggiore può portare alla dichiarazione dello stato di adottabilità qualora questa non abbia “carattere transitorio” (art. 8, 1° comma legge cit.).il procedimento di accertamento dello stato di abbandono si conclude con la dichiarazione dello stato di adottabilità.

Lo stato di adottabilità può cessare per la sopravvenuta adozione, per il raggiungimento del diciottesimo anno di età, e, infine, pr la revoca da parte del giudice, ammessa soltanto in presenza di due condizioni: 1) che sia venuto meno lo stato di abbandono dopo la dichiarazione dello stato di adottabilità; 2) se si accerti che altrimenti sarebbe irrimediabilmente leso l’interesse del minore (art. 21 legge cit.).

Alla dichiarazione dello stato di adottabilità segue la scelta della coppia che in concreto si mostra più idonea alle esigenze di allevamento e di cura del minore e, nell’esclusivo interesse di quest’ultimo.

In generale, il procedimento necessario per adottare un minore straniero secondo le nuove regole può essere distinto in tre momenti. Vi è, infatti, una prima fase, che si svolge completamente in Italia, nella quale la coppia che desidera adottare un minore straniero, presenta apposita domanda al Tribunale per i minorenni e, se è in possesso di tutti i requisiti richiesti, ottiene il decreto di idoneità. Vi è un secondo momento, in cui un ente autorizzato per svolgere le pratiche prende i contatti con il Paese straniero e si occupa di far incontrare i coniugi con il minore che le Autorità propongono per quella specifica adozione. Questa fase si svolge in parte all’estero e in parte in Italia, e termina con l’ingresso del minore nello Stato di accoglienza, espressamente autorizzato dalla Commissione per le adozioni internazionali. L’ultima fase, poi, si svolge nuovamente in Italia ed è completamente finalizzata alla trascrizione del provvedimento di adozione. Quando le varie attività si svolgono di fronte a un’autorità giudiziaria italiana, competente è il Tribunale per i minorenni del luogo dove risiedono i coniugi.

Ma vediamolo più da vicino.

Il nuovo art. 29- bis della legge 184/1983 (così come modificato dalla l. 476/1998) prevede che coloro che sono residenti in Italia e che vogliono adottare un minore residente in uno Stato estero, devono presentare al Tribunale per i minorenni una dichiarazione di disponibilità all’adozione, chiedendo che sia dichiarata la loro idoneità. L’ iter adozionale inizia con una “domanda” presentata dagli aspiranti genitori che chiedono al Tribunale per i minorenni di valutare la loro idoneità. L’elemento di novità è più che altro formale, in quanto la domanda è esattamente definita dichiarazione di disponibilità all’adozione, precisandosi che non si tratta di vera domanda giudiziale (sulla quale il giudice ha l’obbligo di provvedere) e che essa non attribuisce alcun diritto ad adottare un minore.

Se la domanda è presentata da cittadini italiani residenti in uno Stato estero, essa va inoltrata al Tribunale per i minorenni del distretto del luogo in cui i richiedenti hanno avuto l’ultima residenza. Nel caso che i due cittadini italiani non siano mai stati residenti in Italia, è competente il Tribunale per i minorenni di Roma.

Presentata la dichiarazione di disponibilità all’adozione, il Tribunale per i minorenni può (art. 29- bis, comma 3): dichiarare immediatamente l’ inidoneità con decreto, in caso di manifesta carenza dei requisiti necessari; trasmettere entro quindici giorni dalla presentazione una copia della dichiarazione di disponibilità ai Servizi degli enti locali, i quali dovranno svolgere un’accurata indagine in relazione alla capacità dei richiedenti di divenire genitori adottivi.

L’art. 29- bis prevede, inoltre, che i Servizi socio-assistenziali degli enti locali, singoli o associati, anche avvalendosi per quanto di competenza delle Aziende sanitarie locali e ospedaliere, assolvano tre funzioni: fornire informazioni sull’adozione internazionale e sulle relative procedure; preparare gli aspiranti all’adozione; svolgere indagini.

Quanto alla preparazione dei coniugi all’adozione, va rilevato che già vi sono corsi di preparazione all’adozione, organizzati soprattutto dai consultori.

Quanto all’indagine sugli aspiranti genitori adottivi, i Servizi devono acquisire elementi: sulla situazione personale, familiare e sanitaria degli aspiranti genitori adottivi; sul loro ambiente sociale; sulle motivazioni che li determinano; sulla loro attitudine a farsi carico di un’adozione internazionale; sulla loro capacità di rispondere in modo adeguato alle esigenze di più minori o di uno solo; sulle eventuali caratteristiche particolari dei minori che essi sarebbero in grado di accogliere; su ogni altro elemento utile per la valutazione da parte del Tribunale per i minorenni della loro idoneità all’adozione e, al termine, redigere una relazione che gli stessi devono inviare al Tribunale per i minorenni entro quattro mesi dalla ricezione della dichiarazione di disponibilità all’adozione trasmessa al Tribunale per i minorenni.

Ricevuta la relazione, il Tribunale deve sentire i coniugi e, se lo ritiene opportuno, può chiedere che siano svolte ulteriori indagini e approfondimenti. Poi pronuncia entro i due mesi successivi decreto motivato, con il quale dichiara idonea (o no) la coppia all’adozione (art. 30). La legge precisa che il decreto deve anche contenere indicazioni volte a far sì che l’incontro tra il minore da adottare e i coniugi sia il migliore possibile. Il decreto di idoneità, accompagnato da una copia della relazione dei Servizi sociali, va trasmesso immediatamente sia alla C.A.I. istituita dalla nuova legge, sia all’ente autorizzato scelto dalla famiglia adottante, se vi ha già provveduto. Il decreto di idoneità all’adozione, inoltre, non ha un termine allo scadere del quale perde efficacia, ma resta valido per tutta la durata della procedura di adozione, purché questa sia promossa entro un anno dalla comunicazione del provvedimento. Peraltro il decreto può essere revocato dallo stesso Tribunale che lo ha emesso quando sopravvengano cause che possono incidere in maniera rilevante sul giudizio di idoneità. Il provvedimento di revoca deve essere immediatamente comunicato alla C.A.I. e all’ente autorizzato.

Ai sensi del nuovo art. 31 della l. 184/1983 gli aspiranti all’adozione, ottenuto il decreto di idoneità, sono obbligati a rivolgersi a un ente che sia autorizzato ad occuparsi dell’adozione internazionale. L’unico caso in cui non è obbligatorio rivolgersi ad organizzazioni autorizzate, si ha quando si procede ad un’adozione in casi particolari regolata dall’art. 44 lett. a), ossia quando l’adozione viene effettuata da persone unite al minore orfano di padre e di madre da un vincolo di parentela fino al sesto grado, o da un rapporto stabile e duraturo preesistente alla perdita dei genitori; in pratica si fa riferimento al caso in cui il minore straniero è orfano e i parenti o coloro che comunque sono a lui legati, risiedono in Italia.

L’ente suddetto, è a sua volta, obbligato a svolgere determinati adempimenti, elencati dall’art. 31, tra i quali ad esempio, quello di fornire agli aspiranti genitori informazioni sulle procedure, nonché sulle concrete prospettive di adozione. Deve poi prendere i contatti con le competenti autorità del Paese indicato dalla coppia e scelto comunque tra quelli in cui l’ente opera. Deve inviare tutte le informazioni (domanda di adozione, decreto di idoneità e relazione dei Servizi sociali) relative ai coniugi all’Autorità straniera, in modo che questa possa formulare proposte di incontro tra gli aspiranti all’adozione e il minore da adottare. E così via .

Un aspetto rilevante introdotto dalla nuova discplina in materia di adozione internazionale contenuta nella legge 476/1998, è relativa alla validità in Italia dei provvedimenti stranieri di adozione.

Mentre, infatti, la legge 184/1983 stabiliva che i provvedimenti stranieri (di adozione, d’affidamento, ecc.) non avevano efficacia in Italia senza la loro deliberazione da parte del T.m. ai sensi dell’art. 32, invece la legge 476/1998 introduce una disposizione di maggior rispetto dei provvedimenti stranieri, in quanto ” l’adozione pronunciata all’estero produce nell’ordinamento italiano gli effetti di cui all’art. 27“, ossia l’acquisto dello stato di figlio legittimo degli adottanti, l’assunzione del loro cognome e la cessazione dei rapporti con la famiglia di origine.

In verità, l’art. 35 distingue due ipotesi: che l’adozione sia già stata pronunciata all’estero prima dell’ingresso del minore in Italia; e che l’adozione debba invece perfezionarsi dopo l’arrivo del minore in Italia. Competente è sempre il Tribunale per i minorenni dove risiedono gli aspiranti all’adozione; ma se nel primo caso la legge incarica quest’ultimo di verificare che nel procedimento che è stato eseguito all’estero siano state rispettate le condizioni richieste dall’art. 4 della Convenzione dell’Aja per la validità dell’adozione internazionale (che il minore sia stato dichiarato adottabile e che sia stata constatata l’impossibilità della sua sistemazione nel suo Paese di origine). Il Tribunale deve, altresì, verificare che l’adozione non sia contraria ai princìpi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori e controllare se la C.A.I. ha certificato la conformità dell’adozione alla norme della Convenzione dell’Aja e se ha autorizzato l’ingresso e il soggiorno del minore nel nostro territorio a scopo di adozione.

Se, invece, il procedimento per l’adozione non si è ancora concluso quando il minore arriva in Italia, il giudice riconosce il provvedimento straniero efficace come affidamento preadottivo, dopo aver verificato che lo stesso non è contrario ai princìpi fondamentali che regolano nello Stato il diritto di famiglia e dei minori in relazione al superiore interesse del minore. Solo se il periodo di affidamento termina con dei risultati positivi e la permanenza del minore nella famiglia si mostra ancora conforme al suo interesse, il Tribunale pronuncia l’adozione e ne dispone la trascrizione nei registri dello stato civile.

Qualora, invece, la permanenza del minore nella famiglia non sembri più idonea a realizzare il suo interesse, sia al termine dell’affidamento preadottivo, che durante lo stesso, il Tribunale revoca il provvedimento. In particolare, deve allontanare il minore dalla famiglia e trovargli una nuova sistemazione, meglio se volta a un affidamento o ad un’adozione. In via estrema, il Tribunale può anche provvedere al ritorno del minore nel suo Paese d’origine, se ciò risponde al suo interesse. La norma poi prevede che il minore che abbia compiuto i 14 anni, esprima il proprio consenso in relazione ai provvedimenti da assumere, mentre, se ha compiuto i dodici anni, deve comunque essere sentito dal Tribunale, e, se non li ha ancora compiuti, va ascoltato, se ciò viene ritenuto opportuno e non dannoso.

Conclusione

La normativa sull’adozione legittimante dei minori (legge 184/1983 e legge 149/2001) è considerata dal legislatore come un estremo rimedio al quale ricorrere unicamente quando venga accertato che la famiglia di origine non risulti in grado di offrire al minore, né per il presente, né per il futuro, tutte le cure e l’affetto necessari per il suo sviluppo, per costruire un progetto di vita che lo renda un adulto autonomo e responsabile, attraverso strumenti dignitosi e rispettosi della sua individualità e della sua personalità unica ed irripetibile.

Laddove, le condizioni della famiglia di origine risultino precarie, con accertate carenze economiche ed affettive, e tuttavia il disagio non sia permanente, il legislatore ha previsto l’istituto dell’affidamento, che può garantire al minore un’accoglienza in comunità o in famiglie disponibili o da parte di soggetti singoli, in grado di consentire una adeguata continuità degli affetti, di curare la accertata temporanea carenza di strumenti adeguati da parte della famiglia di origine, di rispondere in modo adeguato alle esigenze morali, economiche, materiali, sociali, scolastiche, ecc., relativamente ad uno o più soggetti minori, accertando l’assenza del requisito di “abbandono”, che porterebbe, invece, alla dichiarazione di adottabilità del minore medesimo.

Affidamento che è sempre previsto, in funzione del ritorno del minore nell’ambito della propria famiglia di origine, non appena questa abbia superato, risolto o ridimensionato le proprie inidoneità.

In quest’ottica, è importante segnalare una prospettiva maturata in questi ultimi anni e diretta a privilegiare il più possibile la permanenza del minore nella famiglia di origine, attraverso incentivi anche economici, previsti, ad esempio, per nuclei familiari con redditi bassi, per ragazze madri o famiglie numerose, attraverso le varie forme di assistenza sociale che mirano ad eliminare o ridurre i disagi che possono causare lo stato di abbandono del minore: infatti, il numero dei bambini dichiarati adottabili e poi adottati negli ultimi anni in Italia è gradualmente diminuito, in parte anche per le ragioni sopra esposte.

Ebbene il contesto normativo in esame, sembra sollecitare una riflessione. L’esigenza è quella di porre al centro dell’ordinamento la persona del minore nella sua totalità.

Fra le disposizioni più interessanti si deve tener conto dell’art. 315 c.c. bis, il quale sancisce — per la prima volta — i diritti del figlio, ovvero essere mantenuto, educato, istruito e assistito moralmente dai suoi genitori, nel rispetto delle sue capacità, delle sue inclinazioni naturali e delle sue aspirazioni.

La formulazione dell’art. 315 c.c. bis evoca, come già ricordato, il dettato dell’art. 30 della Costituzione, comma 3 e dell’art. 147 c.c., evidenziandone il cambio di prospettiva: i diritti del figlio non si desumono in via indiretta dai corrispondenti doveri dei genitori, ma sono enunciati positivamente ed in modo esplicito.

Avv. Sabrina Caporale

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1 commento

  1. Poiché ho trovato estremamente interessante l’argomento (in quanto direttamente coinvolto) per cui più che entrare dettagliatamente nel merito della questione (cosa che ad eventuale richiesta sono anche pronto a fare con documentazione comprovante) è mia intenzione soffermarmi nell’effetto emotivo (psicologico) che tali provvedimenti hanno sugli attori (protagonisti) sottoposti a tali provvedimenti. Premesso che aldilà di ogni altra considerazione (in un “paese civile”) vanno innanzitutto tutelati “gli interessi dei minori” di cui le istituzioni qualora se ne dovessero verificare le condizioni (“REALI”) hanno il dovere di intervenire. nel mio caso (sono stato definito “Genitore Inadeguato”) in quanto ho avuto la sfrontatezza di oppormi alle intimidazioni ed ai ricatti dei servizi sociali e del T.M. di Brescia. dopo oltre 20 anni di discriminazioni e soprusi (6 figli allontanati di cui 3 gemelli dichiarati in stato di adottabilità) oggi a 71 anni ho scelto di optare per la vendetta personale e poiché so che (“IPOCRITAMENTE”) tenteranno di far passare un mio eventuale “gesto eclatante” per l’operato di un “pazzo criminale” mi sto premurando di rendere pubblica tutto l’iter giuridico mio e della mia famiglia.

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