Non viene riconosciuto al ricorrente il diritto alla rendita per malattia professionale, non essendoci il nesso causale tra la patologia di “ernia discale lombare” e l’attività lavorativa svolta (Tribunale di Terni, Sez. Lavoro, Sentenza n. 351/2021 del 23/09/2021-RG n. 336/2019)

Il lavoratore, impiegato presso lo stabilimento di Terni, con mansioni di operaio molatore e dal gennaio 2017 di carropontista chiama a giudizio L’Inail deducendo: che le mansioni espletate consistevano nella molatura delle bramme in acciaio (semilavorati in acciaio a sezione rettangolare, utilizzati nella produzione di lamiere), operazione eseguita con la “moletta a mano” di tipo industriale del peso di circa 10 – 15 Kg., e nella sostituzione della mola, una/due volte per turno, del peso di circa 70/80 Kg, e dal 2017 nella guida del carroponte, mezzo non ammortizzato; che l’attività lavorativa ha comportato l’esposizione a rischio consistente nella trasmissione di vibrazioni (uso del carroponte), nella movimentazione manuale di carichi e nell’assunzione di posture incongrue, erette fisse; di aver contratto, a causa delle mansioni, la malattia professionale “ernia discale lombare” e di aver presentato domanda per il riconoscimento della eziologia professionale della patologia; che l’Istituto rigettava l’istanza ritenendo insussistente l’esposizione al rischio lavorativo.

Si costituisce in giudizio l’Istituto deducendo l’insussistenza del nesso di causalità tra la malattia denunciata e le mansioni espletate.

Terminata l’istruttoria articolata su prove testimoniali e CTU Medico-Legale, il Giudice ritiene il ricorso infondato.

In materia di malattia professionale il D.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124 prevede che l’assicurazione obbligatoria comprenda le patologie contratte nell’esercizio e a causa dell’attività lavorativa indicata nelle tabelle allegate all’art. 4 (art. 3).

La Corte Costituzionale, con sentenza 18 febbraio 1988 n. 179, ha dichiarato costituzionalmente illegittima la norma nella parte in cui non prevede che l’assicurazione contro le malattie professionali sia obbligatoria anche per le malattie diverse da quelle comprese nell’indicata tabella, purché si tratti di malattie delle quali sia comunque provata la causa di lavoro.

In tale caso le previdenze consistono in una rendita per l’inabilità permanente (art. 66), purché riduca la capacità lavorativa dell’assicurato in misura superiore al 10% (art. 74, così come modificato in conseguenza della sentenza della Corte Costituzionale 24 maggio 1977 n. 93).

Per le malattie professionali denunciate a decorrere dal 25 luglio 2000 la disciplina della rendita per l’inabilità permanente è stata modificata dal D. LGS. 23 febbraio 2000 n. 38 il cui art. 13 ha disposto un indennizzo per il danno biologico purché riduca la capacità lavorativa dell’assicurato in misura pari o superiore al 6%.

L’indennizzo è rapportato al grado di inabilità accertato ed è erogato in capitale per le menomazioni inferiori al 16%, in rendita per le menomazioni pari o superiori al 16%; qualora la menomazione subita sia pari o superiore al 16% viene erogata una ulteriore quota di rendita commisurata al grado della menomazione, alla retribuzione dell’assicurato e ad un coefficiente previsto nell’apposita tabella.

L’Istituto, nella fase amministrativa, ha dedotto assente l’esposizione al rischio lavorativo.

Ebbene, in tema di malattia professionale derivante da lavorazione non tabellata, la prova della derivazione della malattia da causa di lavoro grava sul lavoratore e deve essere valutata in termini di ragionevole certezza, nel senso che, esclusa la rilevanza della mera possibilità dell’origine professionale, questa può essere invece ravvisata in presenza di un elevato grado di probabilità.

I testi hanno confermato lo svolgimento da parte del ricorrente dell’attività di molatore per circa 15 anni e poi di carropontista, riferendo nel dettaglio quanto alle mansioni di molatore che ” … consistono nell’asportare dai blocchi di acciaio le imperfezioni superficiali dei blocchi e/o residui di acciaio … l’utilizzo costante della moletta a mano ed il peso della stessa utilizzata dal ricorrente per pulire i bordi delle bramme come sopra riferito, operazione che richiede continui piegamenti sulla bramma per visionarla in merito alla presenza di difetti … le bramme venivano lavorate anche dalla macchina molatrice la cui mola interna poteva dover essere cambiata dal molatore anche due volte durante il singolo turno perché si consumava a seconda del tipo d i acciaio che veniva molato (durezza, calore ecc…). Inizialmente il cambio della mola veniva effettuato a mano (svitando, avvitando bulloni e con trasporto manuale) dal singolo molatore, poi è stato introdotto un paranco per sollevare la mola. ….il peso della mola all’interno della macchina di circa 30/40 chilogrammi .”

Egualmente confermato dalle prove orali che il ricorrente dal gennaio 2017 ha cambiato le mansioni svolgendo quelle di carropontista con turni di 4/6 ore per un totale di 40 ore settimanali.

Altro teste ha confermato “… l’utilizzo costante della moletta a mano ed il peso della stessa utilizzata dal ricorrente di circa 15 Kg; la moletta serve per asportare la parte di acciaio in eccesso residua dopo la molatura del pezzo, operazioni che richiedono piegamenti sulla bramm a e spinte con la moletta per togliere il materiale in eccesso. Confermo che dalla macchina molatrice doveva essere cambiata la mola interna (parte verticale ed orizzontale) anche due volte durante il singolo turno perché si consumava a contatto con l’acciaio che veniva molato. Fino al 2014, mi sembra di ricordare, il cambio della mola veniva effettuato a mano, con l’ausilio di un muletto dove veniva caricata a mano la mola e poi dal muletto al carrello e poi dal carrello all’alloggiamento della mola, sempre tutto a mano spesso da soli, almeno io facevo così. Dal 2014 è stato messo un macchinario elettrico per sollevare la mola Comunque posso confermare il peso della mola all’interno della macchina di circa 30/40 chilogrammi ….. dal 2017 è stato adibito a mansioni di carropontista …. … per accedere al carroponte si devono salire delle scale di ferro a tornante perché è posizionato ad una ventina di metri di altezza ed oscilla “.

Ergo, non risulta provato il nesso causale tra la patologia denunciata “ernia discale lombare” e le mansioni espletate dal ricorrente.

I testi escussi hanno confermato l’espletamento da parte del ricorrente delle mansioni lavorative secondo le modalità descritte in ricorso, tuttavia il CTU ha rilevato che l'” ernia discale lombare ” riscontrata nel ricorrente non è correlabile eziologicamente all’attività lavorativa svolta, per cui non si può affermare che lo stesso sia affetto da una malattia professionale”.

Il CTU ha accertato che parte ricorrente è affetto da sindrome da “Ernia discale L3 -L4 in soggetto con spondilodiscoartrosi lombare. La patologia è prevista alla voce tabellare n.77 (tabelle approvate con decreto del Ministero del lavoro e della Previdenza Sociale del 9/4/2008, G.U. n.169 del 21/7/2008) e che le lavorazioni che espongono al rischio di contrarre tale patologia e che godono della presunzione eziologica sono rappresentate da: ” a) lavorazioni svolte in modo non occasionale con macchine che espongono a vibrazioni trasmesse al corpo intero: macchine movimentazione materiali vari, gru portuali, carrelli sollevatori (muletti), imbarcazioni per pesca professionale costiera e d’altura; b) lavorazioni di movimentazione manuale dei carichi svolte in modo non occasionale in assenza di ausili efficaci”.

Ebbene, dall’istruttoria non è emersa l’esposizione da parte del ricorrente ad entrambi i rischi: per quanto concerne le vibrazioni è pacifico in atti che lavoratore è stato adibito al carroponte solo dal gennaio 2017 ed ha denunciato la malattia a dicembre 2017, laddove, peraltro, i testi non hanno confermato l’assenza di ammortizzatori nei mezzi meccanici condotti dall’odierno istante, di qui la carenza probatoria in ordine alla trasmissione di vibrazione alla colonna; mentre riguardo alla movimentazione manuale di carichi non è stata raggiunta convincente prova dell’ esposizione continuativa e costante al rischio specifico.

Il CTU ha concluso, con riferimento al rischio specifico della movimentazione manuale di carichi, che: “nel caso in discussione l’indice di rischio è 0.5, quindi accettabile, di qui l’inconferenza delle osservazioni del CTP. La movimentazione di una mola a mano del peso di 10 -15 kg. (quindi abbondantemente al di sotto del peso limite di 25 kg.) e la movimentazione meno che occasionale (due volte per turno lavorativo e comunque fino al 2014) del disco abrasivo da posizionare all’interno della mola automatica non possono integrare il fattore di rischio in parola”.

Tali circostanze, non sono state vinte da elementi probatori convincenti di segno contrario.

Ed ancora, il CTU ha preso in considerazione altri fattori di rischio rispetto alla patologia patita dal ricorrente rappresentati dall’assunzione costante di posture incongrue (fisse e protratte) e torsioni (abnormi e ripetuti) del busto, ed ha specificato che ” … per quanto riguarda il tronco, le caratteristiche posturali che definiscono la postura come accettabile comprendono essenzialmente: postura del tronco simmetrica ed inclinazione del tronco superiore a 45 °” ……. Dall’anamnesi e dalle prove testimoniali emerge come il lavoro comportava il mantenimento di una posizione eretta e solo in maniera occasionale, e comunque discontinua, il tronco veniva inclinato per ispezionare le bramme. Appare improbabile che tale posizione comportasse un’inclinazione del tronco superiore ai 45° e, comunque, la posizione era mantenuta per brevi periodi e solo per parte del turno lavorativo”.

Per tali ragioni non viene riconosciuto al ricorrente il diritto alla rendita per malattia professionale, non essendoci alcun nesso causale tra la patologia della “ernia discale lombare” e l’attività lavorativa svolta.

Il ricorso viene respinto e, in considerazione della patologia effettivamente sofferta dal ricorrente che lo ha indotto a proporre domanda di riconoscimento dell’eziologia professionale, vengono compensate integralmente le spese del giudizio e della CTU.

Al riguardo dell’ultima compensazione, il Giudice sottolinea che nell’ambito del processo civile, la CTU è strutturata, essenzialmente, quale ausilio fornito al Giudicante, piuttosto che quale mezzo di prova in senso proprio.

La CTU, dunque, costituisce un atto necessario del processo che l’ausiliare compie nell’interesse generale superiore della giustizia e, correlativamente, nell’interesse comune delle parti.

In tal senso la compensazione non costituisce in alcun modo una illegittima condanna alle spese a carico della parte vittoriosa (2858 del 25/03/1999).

Avv. Emanuela Foligno

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