Omessa individuazione di patologia tumorale

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La paziente cita a giudizio la ASL e i due Medici deducendone la responsabilità per omessa individuazione di una patologia tumorale già in atto che aveva provocato un ritardo nella cura e l’aggravamento della malattia.

In particolare, ella nel gennaio 2003 si era sottoposta a due esami di controllo al seno: un’ecografia col dottor B.P. e un esame senologico presso l’Asl convenuta col dottor L.M., entrambi refertati con l’esclusione di qualsiasi patologia di rilievo. Nell’ottobre dello stesso anno 2003 la donna si sottoponeva a un esame presso l’Istituto tumori e le veniva diagnosticato un carcinoma duttale infiltrante della mammella di alto grado 3, a seguito del quale doveva sottoporsi a diversi interventi chirurgici, a trattamenti chemioterapici intensivi e all’asportazione della mammella.

Se i due Medici avessero eseguito scrupolosamente gli esami a gennaio 2003, l’esistenza della patologia tumorale sarebbe stata diagnosticata con nove mesi di anticipo, ancora allo stato iniziale, il che le avrebbe garantito cure meno invasive e maggiori probabilità di successo.

I giudizi di merito

La CTU medico-legale esclude che il ritardo diagnostico di nove mesi abbia cagionato una perdita di possibilità di sopravvivenza della paziente e che lo stesso potesse essere causa di morte della paziente attesa l’aggressività della forma tumorale.

Il Tribunale di Massa, nel 2013, rigettava integralmente la domanda di risarcimento dei danni patrimoniali e non patrimoniali proposta iure proprio e iure hereditatis dai figli della donna, nel frattempo deceduta per la patologia tumorale anzidetta. I giudici affermavano la mancanza del nesso causale tra la condotta dei medici e i danni, e la mancanza di una tempestiva domanda di risarcimento del danno da perdita di chance, e comunque la mancanza dei presupposti per il suo accoglimento e l’intrasmissibilità agli eredi di questa voce di danno.

La Corte d’appello di Genova, disponendo la nomina di un nuovo CTU, escludeva ogni responsabilità in capo al radiologo, accertava la mancanza di diligenza invece in capo al senologo, riformando la sentenza di primo grado, condannava in solido la Asl e il senologo. Nello specifico, i Giudici di Appello, escludevano la sussistenza di nesso di causalità tra i fatti contestati e la morte della donna, ritenevano ammissibile e tempestiva la domanda di perdita di chance di sopravvivenza, e riconoscevano la sussistenza di un nesso causale tra la diagnosi intempestiva e una riduzione delle possibilità di sopravvivenza che stimavano in un accorciamento delle prospettive di vita di due anni (recependo l’indicazione del CTU nominato in appello). Riconoscevano, inoltre, il diritto della defunta al risarcimento del danno per dissezione del cavo ascellare, che liquidava in 9.000 euro.

In favore dei figli viene riconosciuto il diritto al risarcimento del danno da lesione del rapporto parentale, liquidato nella misura di 100.000 euro ciascuno e un danno patrimoniale per la mancata sopravvivenza della madre pari a 14.500 euro ciascuno escludendo altre voci di danno patrimoniale.

La Corte di Cassazione, con sentenza n. 8461 del 2019, accoglieva il primo e il secondo motivo del ricorso principale dei figli della paziente, rigettati gli altri e, rigettato il ricorso incidentale, cassava la sentenza impugnata e rinviava la causa alla Corte di merito al fine di procedere al riesame della controversia enunciando i seguenti principi di diritto:

  • a) “è configurabile il nesso causale tra il comportamento omissivo del medico e il pregiudizio subito dal paziente qualora, attraverso un criterio necessariamente probabilistico, si ritenga che l’opera del medico se correttamente e prontamente prestata avrebbe avuto serie ed apprezzabili possibilità di evitare il danno verificatosi: laddove il danno sia costituito anche dall’evento morte sopraggiunto in corso di causa ed oggetto della domanda in quanto riconducibile al medesimo illecito il giudice di merito, dopo aver provveduto all’esatta individuazione del petitum, dovrà applicare la regola della preponderanza dell’evidenza o del più probabile che non al nesso di causalità fra la condotta del medico e tutte le conseguenze dannose che da essa sono scaturite”.
  • b) “ove la decisione del giudice sia fondata sulle risultanze di una CTU, l’accertamento tecnico svolto deve essere valutato nel suo complesso tenuto conto anche dei chiarimenti integrativi prestati sui rilievi dei consulenti di parte. Il mancato e completo esame delle risultanze della CTU integra un vizio della sentenza che può essere fatto valere nel giudizio di cassazione ai sensi dell’articolo 360 comma primo numero 5 c.p.c., risolvendosi nell’omesso esame di un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti”.

Con la sentenza n. 403 del 2021, emessa in sede di rinvio e qui impugnata, la Corte d’appello di Genova ha accolto la domanda degli attori e, ritenuta la responsabilità del senologo e della Asl, li ha condannati a pagare 175.158 Euro a titolo di danno iure hereditatis ed a pagare rispettivamente 229.000 euro e 272.500 euro per il danno subito dai due figli iure proprio, oltre alle spese.

La Corte motiva le condanne affermando che, alla luce di un esame completo delle risultanze della consulenza tecnica, il danno evento cagionato dalla conclamata condotta omissiva del sanitario sia stato quello di aver procurato la morte stessa della paziente, che con cure tempestive ed adeguate alla gravità del caso con elevato grado di probabilità non si sarebbe verificata.

L’intervento della Suprema Corte

La Cassazione viene interpellata dalla ASL per valutare se esistente omissione di fatto decisivo che emergeva dalla stessa CTU che le probabilità di sopravvivenza della donna al momento della sia pur tardiva corretta diagnosi non si erano azzerate ma si erano ridotte da una percentuale dell’80/85% al 75%, quindi si erano soltanto ridotte e di una percentuale piuttosto modesta, pari al 5 o al 10% del totale, tale da non giustificare la affermata esistenza del nesso causale tra la ritardata diagnosi e l’evento morte, tanto più in presenza di altre circostanze ostative, indicate dalla ricorrente nei motivi di appello incidentale neppure esaminati dalla Corte d’appello di Genova in sede di rinvio.

La censura è fondata (Cassazione civile, sez. III, 17/06/2024, n.16753).

La sentenza impugnata giunge alla conclusione che la ritardata diagnosi, frutto dell’accertamento poco scrupoloso del senologo sia stata causa non di una diminuzione delle aspettative di vita, ma della morte stessa della paziente. Sulla base di questo assunto, procede a rinnovare l’intera liquidazione del danno, sia quello spettante alla defunta e per essa ai suoi eredi, sia quello spettante ai due figli in proprio, dando spazio anche a voci di danno mai in precedenza considerate.

La sentenza impugnata, infatti, pur nell’intento di dare attuazione al principio di diritto formulato dalla Corte di Cassazione, svolge un ragionamento privo di logica arrivando a conclusioni non concordanti con le premesse.

I Giudici di Appello riprendono in considerazione, e pongono alla base della loro valutazione una affermazione del CTU, secondo la quale, se l’esame svolto dal senologo fosse stato accurato, dando luogo ad una diagnosi tempestiva della patologia tumorale già in atto, la paziente avrebbe avuto il 75-85% di probabilità di sopravvivenza a 10 anni. In un secondo passaggio, la CTU afferma poi che, atteso che la diagnosi non è stata, viceversa, tempestiva, le possibilità di sopravvivenza a dieci anni della paziente si sono ridotte al 70%.

La Corte d’appello prende in considerazione queste due affermazioni e nella motivazione compone un paralogismo: prende come primo termine di ragionamento la prima affermazione “se ci fosse stata una diagnosi tempestiva la paziente avrebbe avuto il 75/85% di probabilità di sopravvivenza” (a dieci anni) e poi assume come secondo termine del ragionamento non le conclusioni cui è pervenuto il consulente sulla riduzione delle aspettative di vita, ma un dato non congruente con il primo e cioè il risultato storico, ovvero che a distanza di 10 anni la paziente, in effetti, è morta, per trarne una conclusione – che è priva di collegamento logico con le premesse – e cioè che la morte della paziente è dovuta, esclusivamente, non alla malattia ma al ritardo diagnostico.

La motivazione è del tutto illogica e contraddittoria perché omette un passaggio logico necessario, e cioè che con la ritardata diagnosi le probabilità di sopravvivenza non si sono azzerate ma si sono ridotte al 70%, traendo una conclusione che non è minimamente ancorata alle premesse. In tal modo ragionando è stata addossata al medico l’intera responsabilità della morte della paziente senza considerare l’aggressività del cancro, ma esclusivamente il ritardo nella diagnosi.

Un abbattimento delle prospettive di vita della paziente

È invece corretta la considerazione (come esposta dal CTU) che il medico, con la sua negligenza abbia determinato un abbattimento delle prospettive di vita della paziente nella misura di due anni.

Dal punto di vista liquidatorio viene considerata, pertanto, la riduzione delle aspettative di vita dell’ordine di due anni. Deve essere risarcito, iure hereditatis, il danno non patrimoniale subito dalla defunta, che non è il danno catastrofale, né il danno biologico terminale, ma il danno per la riduzione delle sue aspettative di vita per due anni, per il quale viene ritenuta equa la somma complessiva di 100.000 euro ai valori attuali.

Non si può discorrere di danno catastrofale in quanto il comportamento del medico non è stato causa diretta della morte della paziente, e inoltre perché il danno catastrofale trova spazio nelle ipotesi in cui alla lesione traumatica segua a breve, ma apprezzabile intervallo di tempo, l’evento morte.

Per quanto concerne i danni subiti dai due figli iure proprio, anch’essi vanno rapportati non alla perdita del rapporto parentale, non essendo essa stata causata direttamente né esclusivamente dall’operato del sanitario ma al danno da lesione del rapporto parentale, per il quale viene confermato il valore determinato dalla prima sentenza di appello, in 100.000 euro ciascuno, con rivalutazione dalla data della morte della madre (12/3/2013) ed interessi legali sulla somma annualmente via via rivalutata. È poi dovuto ai figli il risarcimento del danno patrimoniale riportato per la perdita del supporto economico della madre, anch’esso da rapportarsi, come indicato nella prima decisione di appello, ad un periodo di due anni, e quindi da quantificarsi in 14.500 euro ciascuno, sulla base dell’importo annuo di 7.250 euro ciascuno indicato dagli stessi in comparsa conclusionale, oltre interessi e rivalutazione.

Avv. Emanuela Foligno

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