L’amministratore della società datrice di lavoro è stato ritenuto responsabile per l’infortunio dei lavoratori sia dal Tribunale che dalla Corte di Appello.
Il capo d’accusa riporta la mancata verifica della stabilità del ponteggio e la mancata conformità dello stesso alle indicazioni del PiMUS (piano di montaggio, uso e smontaggio).
La vicenda
Con sentenza del 9 novembre 2022, la Corte di Appello di Potenza ha confermato la decisione di primo grado del Tribunale di Matera (12 giugno 2020), che riteneva responsabile del reato di cui agli artt. 590 commi 1, 2, 3 e 583, comma 1 n. 1, c.p., con condanna alla pena di mesi 4 di reclusione e di risarcimento del danno, l’amministratore della società datrice di lavoro.
La sentenza penale di secondo grado confermava, oltre alla condanna al risarcimento dei danni cagionati alla parte civile – da liquidarsi separatamente –, la condanna al pagamento di una provvisionale per 25.000 euro.
La stabilità del ponteggio
L’infortunio avveniva il 15/6/2017 e l’imputato è accusato di avere causato lesioni al proprio dipendente perché non verificava la stabilità del ponteggio sul quale l’infortunato stava lavorando. Quindi consentì che quel ponteggio fosse assemblato in difformità dalle indicazioni del Piano di montaggio, uso e smontaggio (PiMUS) e, pertanto, non rispettoso dell’art. 136 d.lgs. 9 aprile 2008 n. 81.
Nello specifico, l’infortunato e un suo collega stavano lavorando alla ristrutturazione di un immobile e avevano provveduto alla demolizione della volta di copertura di una grande sala. Poiché dovevano operare in quota, i lavoratori avevano montato un ponteggio e ciò era avvenuto alla presenza dell’imputato che lavorava insieme ai propri operai. Il ponte veniva spostato all’interno della stanza via via che la volta veniva demolita e per questo non era stato ancorato alle pareti. I lavori di demolizione erano quasi ultimati e gli operai stavano provvedendo a ripulire dai detriti i piani del ponteggio (che si trovava in quel momento addossato a una parete), quando lo stesso si ribaltava, abbattendosi sul pavimento ingombro dai detriti prodotti dalla demolizione della volta. I due lavoratori cadevano a terra e, uno dei due (la parte offesa) invece fu trasportato all’ospedale di Matera ove furono riscontrati gravi traumi da precipitazione.
L’intervento della Cassazione
Contro la sentenza della Corte di Appello propone ricorso il datore di lavoro ma la S.C. ritiene tutte le censure inammissibili.
Egli si duole, in particolare, che la sentenza impugnata non abbia confutato le argomentazioni sviluppate dal Consulente tecnico della difesa quanto alla dinamica dell’incidente. Osserva che la sua penale responsabilità sarebbe stata affermata senza tenere conto degli obblighi imposti dalla legge – nei cantieri, come quello in esame, nel quale operano più imprese esecutrici – al committente e al coordinatore dei lavori da lui nominato. Rileva che il d.lgs. n. 81/08 disegna “una chiara e autonoma posizione di garanzia” in capo al committente. Sostiene, infine, che la sentenza impugnata non avrebbe argomentato in ordine alla prevedibilità dell’evento e alla rilevanza causale rispetto alla supposta violazione della regola cautelare.
Preliminarmente gli Ermellini danno atto che una sentenza di appello non può essere censurata solo perché esamina i motivi di appello con criteri omogenei a quelli del primo Giudice e fa riferimento ai passaggi logico giuridici della prima sentenza. In questi casi, infatti, poiché vi è concordanza tra i Giudici del gravame e quello di primo grado nell’analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione, la struttura giustificativa della sentenza di appello si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo.
Ciò posto, la Corte di Potenza, richiamando anche la dettagliata motivazione contenuta nella sentenza di primo grado, ha ritenuto decisive ai fini dell’affermazione della penale responsabilità dell’imputato le dichiarazioni rese dall’infortunato e dal teste (ovverosia del collega che si trovava insieme a lui sul ponteggio). Secondo la sentenza impugnata da tali dichiarazioni si desume che l’impalcatura si ribaltava e che ciò fu possibile perché non era ancorata; che l’ancoraggio era previsto dal Piano di montaggio uso e smontaggio (PiMUS) appositamente predisposto.
La Consulenza tecnica della difesa
A fronte di tali (corrette) argomentazioni il ricorrente si duole che una diversa ricostruzione del fatto operata dal Consulente tecnico della difesa non sia stata presa in considerazione e confutata dalla sentenza impugnata. Non spiega, però, in cosa sia consistita tale diversa ricostruzione e la consulenza non è allegata al ricorso che, pertanto, non è autosufficiente.
Oltre a ciò, la sentenza di primo grado ha esaminato la tesi difensiva, secondo la quale al momento dell’infortunio, la vittima non si trovava sull’ultimo piano del ponteggio (ad una altezza di almeno tre metri da terra), bensì su un piano più basso. Siccome questa sembra essere l’argomentazione sviluppata dal Consulente tecnico della difesa, tale circostanza di fatto, quand’anche accertata, non escluderebbe l’applicazione dell’art. 136 D.Lgs. n. 81/08 che mira a garantire la stabilità dei ponteggi destinati allo svolgimento di lavori in quota e non smette di essere applicabile se il lavoratore opera nella parte più bassa del ponte ad una altezza inferiore ai due metri.
La norma citata ben spiega le regole di cautela per la realizzazione di ponteggi per le lavorazioni in quota e i limiti dell’altezza superiore ai 2 metri rispetto al suolo. Comunque, il fatto dirimenti è che il ponteggio doveva essere stabile (cioè ancorato alle pareti), invece secondo quanto accertato dai Giudici di merito non lo era.
Le due decisioni di merito che hanno affermato la responsabilità dell’amministratore della società datrice di lavoro sono corrette, logiche e non contraddittorie (Cassazione Penale, sez. IV, dep. 17/01/2024, n.1940).
Avv. Emanuela Foligno