La Corte d’appello di Messina, confermando la condanna pronunciata in primo grado, ha ritenuto l’imputato responsabile del reato di stalking di cui all’art. 612-bis cod. pen. L’imputato, con condotte reiterate, avrebbe molestato e minacciato la sua ex compagna costringendola a vivere in un continuo stato d’ansia e in una perdurante preoccupazione per la sua incolumità personale ed imponendole, così, di mutare le proprie abitudini di vita.
Il ricorso in Cassazione dell’imputato
Secondo l‘imputato, che si rivolge alla Corte di Cassazione, la Corte territoriale:
- a) non avrebbe indicato le ragioni per le quali ha ritenuto il ricorrente responsabile dei fatti ascritti nonostante che, per quegli stessi fatti, commessi nel medesimo periodo, la persona offesa avesse sporto querela nei confronti del suo ex marito e avesse esplicitamente dichiarato, nella prima querela (poi transitata nel presente procedimento), di non aver sospetti su nessuno.
- b) non avrebbe motivato in ordine alla lettera versata in atti e scritta dalla stessa I., dalla quale si potrebbe logicamente dedurre, sostiene la difesa, che le accuse mosse da quest’ultima fossero frutto dell’acredine e del desiderio di vendetta nutrito verso l’imputato.
- c) avrebbe, infine, travisato il contenuto dei file video acquisiti agli atti del dibattimento dai quali si evincerebbe solo che il P. ha percorso un tratto di strada preceduto dalla persona offesa.
La prova dello stato di ansia
Mancherebbe, in definitiva, sempre secondo l’imputato, l’accertamento dell’effettivo verificarsi dell’evento indicato dalla norma (lo stato d’ansia e di paura nel quale la persona offesa si sarebbe venuta a trovare in conseguenza delle condotte contestate all’imputato), così come mancherebbe un reale accertamento, alla luce della sporadicità delle condotte assunte, in ordine alla necessaria consapevolezza da parte dell’imputato della loro idoneità a procurare alla vittima l’ipotizzato stato d’ansia.
Ebbene, la Cassazione ribadisce che l’obbligo di motivazione imposto al Giudice dell’impugnazione non richiede necessariamente che egli fornisca specifica ed espressa risposta a ciascuna delle censure sollevate dal ricorrente (essendo sufficiente che il suo percorso argomentativo indichi le ragioni poste a fondamento della decisione e dimostri di aver tenuto presente i fatti decisivi ai fini del giudizio). Quindi l’imputato non si confronta con le analitiche argomentazioni offerte dalla Corte territoriale. Si limita a prospettare una diversa valutazione degli elementi probatori acquisiti nel corso dell’istruttoria dibattimentale ed utilizzati dalla Corte territoriale a fondamento del giudizio di responsabilità, nonostante la Cassazione non possa apprezzare il dato istruttorio e la ricostruzione fattuale prospettata nei giudizi di merito.
Il reato di stalking ha natura di reato abituale
Il reato di stalking previsto dell’art. 612-bis cp ha natura di reato abituale e di danno ed è strutturato, sotto il profilo oggettivo, intorno alla necessaria reiterazione dei comportamenti descritti dalla norma incriminatrice, inseriti nella sequenza causale che porta alla determinazione dell’evento, nelle sue alternative forme di manifestazione indicate nella norma: – un perdurante e grave stato di ansia o di paura, un fondato timore per l’incolumità propria o di un prossimo congiunto o di persona al medesimo legata da relazione affettiva; o l’alterazione delle proprie abitudini di vita.
Ebbene, la Corte territoriale ha ricostruito nel dettaglio la dinamica dei fatti, evidenziando le plurime condotte minacciose e moleste, la sistematica loro reiterazione e la sensazione di angoscia e paura ingenerata (manifestata attraverso il cambiamento di utenza e di abitazione). Ed è proprio la percezione del malessere di volta in volta espresso dalla persona offesa (per come chiaramente apprezzata dal nuovo compagno e dagli stessi militari intervenuti) che dà conto della piena consapevolezza da parte dell’imputato della potenzialità dannosa della relativa reiterazione.
Il nesso eziologico nel reato di stalking
Sul punto la S.C. ricorda che il nesso eziologico è da ritenersi sussistente anche quando il fatto reato, pur non avendo determinato direttamente il danno, abbia tuttavia prodotto, secondo un criterio di regolarità causale uno stato tale di cose che senza di esse il danno non si sarebbe verificato.
In conclusione, la Cassazione dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali, al versamento della somma di tremila euro in favore della Cassa delle ammende, nonché alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute dalla parte civile.
Avv. Emanuela Foligno