La risoluzione del contratto, pur comportando, per il suo effetto retroattivo, l’obbligo di ciascuno dei contraenti di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice a condannare il venditore alla restituzione degli interessi in assenza di espressa domanda della parte interessata

La vicenda

L’attore aveva agito in giudizio per la risoluzione del contratto avente ad oggetto l’acquisto di un motociclo, per gravi difetti di funzionamento che lo rendevano inidoneo all’uso cui era destinato.

Si costituiva in giudizio la società venditrice per resistere alla domanda, sostenendo che, trattandosi di motoveicolo usato, i vizi erano riconducibili all’usura del mezzo e soggiungeva, inoltre, di aver effettuato interventi di sostituzione dei pezzi usurati e difettosi.

All’esito del giudizio di primo grado, il Tribunale di Sulmona rigettava la domanda. La Corte d’appello di L’Aquila ribaltava l’esito del processo accogliendo la domanda attorea.

I giudici della corte territoriale avevano, infatti, accertato che i vizi, preesistenti alla vendita, impedivano l’accensione ed il funzionamento del motociclo e che gli interventi di riparazione effettuati dalla ditta venditrice non fossero stati eseguiti a regola d’arte; conseguentemente, “la cosa era inidonea all’uso cui era stata destinata”.

Per la cassazione della sentenza d’appello, ha proposto ricorso la società venditrice lamentando tra gli altri motivi, la violazione delle norme civilistiche, in particolare degli artt. 1490 e 1492 c.c.; ma la Corte di Cassazione (Seconda Sezione Civile, ordinanza n. 3272/2020) ha respinto il motivo perché infondato.

Invero, “anche il veicolo usato – hanno affermato gli Ermellini – deve pur sempre essere idoneo all’uso cui è destinato”; mentre nel caso in esame, la corte di merito aveva accertato – con giudizio insindacabile in sede di legittimità – che, già nel periodo in cui il veicolo era in garanzia, il mezzo presentava problemi di accensione ed avviamento, che non furono risolti perché gli interventi di riparazione non erano stati effettuati a regola d’arte”.

La condanna alla restituzione degli interessi

Diversamente, il Supremo Collegio ha accolto il secondo motivo di censura, relativo alla errata condanna della società venditrice alla restituzione del prezzo comprensivo degli interessi, nonostante questi ultimi non fossero stati chiesti in citazione ma soltanto nella comparsa conclusionale del giudizio di appello.

Come è noto, “la declaratoria di risoluzione del contratto, pur comportando, per il suo effetto retroattivo espressamente sancito dall’art. 1458 c.c., l’obbligo di ciascuno dei contraenti di restituire la prestazione ricevuta, non autorizza il giudice a emettere i relativi provvedimenti restitutori, in assenza di domanda della parte interessata” (Cassazione civile sez. II, 01/07/2008, n. 17995; Cass. 14/11/2002 n. 16021, 14/1/2002 n. 341, 3/4/1999 n. 3287).

Di tale principio di diritto non aveva fatto corretta applicazione la corte di merito, perciò la sentenza impugnata è stata cassata; peraltro, non essendo necessari ulteriori accertamenti di fatto, la Suprema Corte ha deciso la causa nel merito, con la statuizione della non debenza degli interessi da parte della società ricorrente.

Avv. Sabrina Caporale

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