Il lavoratore conveniva la società datrice avanti il Tribunale di Ivrea per sentir dichiarare l’invalidità del licenziamento intimatogli il 2/10/2019 per superamento del periodo di comporto, con le conseguenze, in via principale, di cui al comma 1 dell’art. 18 della legge n. 300/1970, ovvero, in subordine, di cui ai commi 4 e 7 dello stesso art. 18, ovvero ancora, in estremo subordine, di cui al comma 6 del medesimo disposto (Corte d’Appello di Torino, Sez. Lavoro, Sentenza n. 604/2021 del 03/11/2021 RG n. 375/2021)

Il Tribunale dichiarava la nullità del licenziamento in quanto discriminatorio e condannava la datrice a reintegrare il ricorrente nel posto di lavoro e a corrispondergli un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto per il periodo compreso fra la data del licenziamento e l’effettiva reintegra, nonché a rifondergli le spese di lite.

La società propone opposizione che viene respinta dal Tribunale di Ivrea.

Avverso detta sentenza la medesima società propone reclamo in appello.

Il Tribunale ha accolto il ricorso, affermando la natura discriminatoria del licenziamento considerando:

1. L’applicazione del medesimo periodo di comporto tanto ai lavoratori normodotati quanto a quelli disabili costituisce discriminazione indiretta, atteso che i lavoratori disabili sono maggiormente esposti al rischio di contrarre patologie causalmente collegate con la loro disabilità;

2. L’assenza del lavoratore dall”11 al 14 gennaio 2018 è stata determinata dall’adenoma alla prostata con la conseguenza che tale periodo non poteva essere considerato ai fini del comporto in quanto l’assenza era eziologicamente connessa all’accertata disabilità;

3. La circostanza che il datore di lavoro non conosca la diagnosi è irrilevante poiché la discriminazione prescinde dall’intento soggettivo;

4. Parimenti l’impossibilità per il datore di lavoro di differenziare le diverse giornate di assenza è ininfluente poiché il diritto anti discriminatorio non agisce in ottica sanzionatoria bensì protettiva;

5. Né può imporsi al lavoratore l’onere di comunicare quando l’assenza sia connessa allo stato di disabilità poiché ciò riduce in via interpretativa le tutele riconosciute dall’ordinamento al lavoratore disabile;

6. La presenza di plurime disposizioni in tema di comporto, con periodi diversificati in ragione della gravità della patologia non esclude la discriminazione poiché il lavoratore non si è potuto giovare di alcune di tali disposizioni;

7. Da ultimo non vi è prova che l’espunzione dal periodo di comporto dei giorni di assenza legati all’accertata disabilità ecceda il canone della ragionevolezza degli accomodamenti che il datore di lavoro è tenuto ad adottare posto che la società non ha trovato che detta neutralizzazione delle assenze si sarebbe tradotta in un costo economico o organizzativo sproporzionato.

La società datrice censura la decisione e deduce:

  • La necessità di indicare nei certificati di malattia se la stessa costituisce ” patologia grave che richiede terapia salvavita” ovvero stato patologico sotteso o connesso alla situazione di invalidità riconosciuta è stata introdotta dal decreto del Ministero della Salute del 18.4.2012 e la circostanza che in nessun odei certificati medici la malattia sia stata indicata come sottesa alla situazione di invalidità costituisce prova del fatto che non si trattava di malattie collegate alla disabilità riconosciuta al lavoratore dal 14.5.2018;
  • In presenza di una malattia prolungata o di ripetuti eventi morbosi vengono a confrontarsi due diversi interessi: quello del lavoratore a conservare il posto di lavoro e quello del datore di lavoro ad esercitare correttamente il proprio diritto di recesso;
  • La composizione dei diversi interessi è possibile solo attraverso la cooperazione tra le parti cooperazione che si traduce necessariamente in capo al lavoratore nel dare notizia sulla riconducibilità della malattia alla disabilità;
  • Il nostro ordinamento interno prevede un apparato di meccanismi difensivi attraverso i quali al lavoratore disabile è già garantito un periodo d i conservazione del posto più lungo e tre questi il congedo per cure ex art. 7 d.lgs. 119/11, i tre giorni di permesso mensile retribuito ex art. 33, comma 3 , legge 104/92, la diversificazione del comporto contrattuale in ragione della gravità della malattia ovvero della durata della stessa;
  • La sentenza ha omesso di considerare che la società, in adempimento alle prescrizioni del medico competente in esito alla visita del 17.1.2018, ha adibito il lavoratore a nuove mansioni che non prevedevano la movimentazione manuale di carichi;
  • con verbale di invalidità del 14.05.2018 il lavoratore è stato riconosciuto invalido civile nella misura del 70% ed a seguito della visita del 29.01.2019 è stato riconosciuto invalido ai fini del collocamento mirato.

In data 2.10.2019 è stato licenziato per superamento del periodo di comporto e precisamente per essere stato assente dal lavoro per malattia per 367 giorni nell’arco dei tre anni precedenti ed aver così superato il periodo di conservazione del posto di lavoro di 365 giorni.

Il primo Giudice ha ritenuto che il lavoratore, essendo affetto da limitazioni fisiche a carattere duraturo che gli impedivano una piena ed effettiva partecipazione alla vita professionale su base di uguaglianza con gli altri lavoratori, dovesse essere qualificato come “persona con disabilità ” ai sensi e per gli effetti di cui agli artt. 1 e ss. del d.lgs. 216/2003, e detta statuizione è divenuta definitiva.

La Corte d’Appello ritiene il reclamo fondato e non condivide il percorso motivazionale della sentenza impugnata.

Il punto di partenza nell’indagine sulla ipotizzata natura discriminatoria del disabile è rappresentato dalla sentenza della Corte di giustizia (cause riunite C -335/11 e C -337/11) nella quale la Corte europea ha affermato che ” va osservato che un lavoratore disabile è maggiormente esposto al rischio di vedersi applicare il periodo di preavviso ridotto di cui all’articolo 5, paragrafo 2, della FL rispetto ad un lavoratore non disabile. Infatti, come l’avvocato generale ha rilevato al paragrafo 67 delle sue conclusioni, rispetto ad un lavoratore non disabile un lavoratore disabile è esposto al rischio ulteriore di una malattia collegata al suo handicap. Pertanto, egli corre un rischio maggiore di accumulare giorni di assenza per malattia e, quindi, di raggiungere il limite dei 120 giorni contemplato dall’articolo 5, paragrafo 2, della FL. ” giungendo poi a concludere che ” Pertanto, la direttiva 2000/78 deve essere interpretata nel senso che essa osta ad una disposizione nazionale che prevede che un datore di lavoro possa mettere fine al contratto di lavoro con un preavviso ridotto qualora il lavoratore disabile interessato sia stato assente per malattia, con mantenimento della retribuzione, per 120 giorni nel corso degli ultimi dodici mesi, quando tali assenze siano causate dal suo handicap, salvo nel caso in cui detta disposizione, da un lato, persegua un obiettivo legittimo e, dall’altro, non vada al di là di quanto necessario per conseguire tale obiettivo, circostanza che spetta al giudice del rinvio valutare” (cause riunite C -335/11 e C337/11).

Ebbene, tali conclusioni cui è giunta la Corte non possono essere estese ad ogni caso di licenziamento del disabile sia perché la fattispecie sottoposta al giudizio della CGUE era caratterizzata da profili fattuali peculiari sia perché in ogni caso è necessario valutare l’obiettivo complessivamente perseguito dalle norme di diritto interno e valutarne la legittimità.

Nel caso oggetto di esame, l’assenza per malattia impedisce al datore di lavoro di esercitare il diritto di recesso durante il periodo di comporto convenzionalmente pattuito e la prospettiva è quindi diametralmente opposta.

Non ritiene quindi la Corte d’Appello che la sentenza 335/2013 della CGUE possa di per sé condurre alle conclusioni cui è pervenuto il primo giudice e ciò sia per la diversità delle fattispecie sia per la doverosa valutazione della legittimità dell’obiettivo perseguito dalla disposizione potenzialmente discriminatoria sia infine per la necessità di operare un bilanciamento tra i contrapposti interessi delle parti.

E’ necessario valutare e soppesare gli interessi giuridicamente rilevanti delle parti del rapporto di lavoro: da un lato l’interesse del disabile al mantenimento di un lavoro confacente con il suo stato fisico e psichico, in una situazione di oggettiva ed incolpevole difficoltà; d’altro lato l’interesse del datore a garantirsi comunque una prestazione lavorativa utile per l’impresa.

L’interesse del lavoratore disabile a conservare il posto di lavoro deve essere ponderato in relazione sinallagmatica con quello del datore di lavoro di non doversi fare carico a tempo indefinito del contraccolpo che le assenze cagionano all’organizzazione aziendale, bilanciamento di interessi del tutto trascurato nella sentenza impugnata.

Il dovere del datore di lavoro di scorporare dai giorni di assenza per malattia quelli riconducibili alla disabilità del dipendente presuppone infatti la conoscenza della ragione dell’assenza e detta conoscenza è possibile solo con la cooperazione del dipendente sul quale incombe l’onere di comunicare le assenze riconducibili alla disabilità.

L’adempimento di detto onere è reso estremamente agevole dal D.M. 18.4.2012 che ha introdotto la possibilità di indicare nei certificati barrando la corrispondente casella se l’assenza dal lavoro sia uno stato patologico connesso alla situazione di invalidità riconosciuta.

Il lavoratore si è limitato a trasmettere alla datrice i certificati medici relativi alle sue assenze per malattia senza curare che negli stessi venisse indicata la riconducibilità causale dell’assenza alla sua condizione di invalido né comunicare altrimenti la circostanza.

L ‘inadempimento del lavoratore all’obbligo di cooperazione rende quindi inesigibile il preteso obbligo del datore di lavoro di espungere dal comporto le giornate di assenza correlate all ‘invalidità.

Secondo il condivisibile orientamento espresso in punto dalla Suprema Corte “nella fattispecie di recesso del datore di lavoro per l’ipotesi di assenze determinate da malattia del lavoratore, tanto nel caso di una sola affezione continuata, quanto in quello del succedersi di diversi episodi morbosi (cosiddetta eccessiva morbilità), la risoluzione del rapporto costituisce la conseguenza di un caso di impossibilità parziale sopravvenuta dell’adempimento, in cui il dato dell’assenza dal lavoro per infermità ha una valenza puramente oggettiva; ne consegue che non rileva la mancata conoscenza da parte del lavoratore del limite cosiddetto esterno del comporto e della durata complessiva delle malattie e, in mancanza di un obbligo contrattuale in tal senso, non costituisce violazione da parte del datore di lavoro dei princìpi di correttezza e buona fede nella esecuzione del contratto la mancata comunicazione al lavoratore dell’approssimarsi del superamento del periodo di comporto (in quanto tale comunicazione servirebbe in realtà a consentire al dipendente di porre in essere iniziative, quali richieste di ferie o di aspettativa, sostanzialmente elusive dell’accertamento della sua inidoneità ad adempiere l’obbligazione. In senso analogo v. anche Cass. lav. n. 13396 del 13/09/2002: il lavoratore licenziato per superamento del periodo di comporto non può lamentare che il datore di lavoro non l’abbia messo in grado di avvalersi del di ritto, previsto dal contratto collettivo, di fruire di un periodo di aspettativa al termine del comporto, dal momento che il datore di lavoro non è tenuto a sollecitare il ricorso all’aspettativa e, d’altra parte, la normativa legale e contrattuale deve es sere nota ad entrambe le parti del rapporto. Conforme id. n. 21385 del 10/11/2004. V. altresì Cass. lav. n. 1757 del 1995 e n. 3351 del 1996. “

In accoglimento del reclamo proposto dalla società datrice vengono respinte le domande del lavoratore proposte con il ricorso introduttivo.

Avv. Emanuela Foligno

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