La determinazione del tempo tuta, ovvero  dell’operazione di vestizione del lavoratore, risulta una prescrizione del datore anche se derivante da ragioni di igiene pubblica

Il tempo necessario per indossare la divisa aziendale va retribuito. Lo ha chiarito la Suprema Corte di Cassazione con la sentenza n. 7738/2018. Tale principio, tuttavia, vale solamente laddove il cosiddetto tempo tuta sia eterodiretto dal datore di lavoro, ovvero quando è il datore a disciplinarne tempo e luogo di esecuzione.

Nel caso in cui, invece, il dipendente abbia la facoltà di scegliere quando e dove cambiarsi, la retribuzione non è dovuta. L’operazione di cambio, in tal caso, è ritenuta parte degli atti di diligenza preparatoria allo svolgimento della prestazione lavorativa.

Nella vicenda esaminata dagli Ermellini, il giudice a quo aveva riconosciuto le ragioni di alcune addette al servizio mensa gestito da una società. Le lavoratici chiedevano  il riconoscimento delle differenze retributive dovute al tempo utilizzato per indossare e dismettere la divisa.

La Corte d’Appello, in particolare, aveva ritenuto che tale tempo rientrasse nel normale orario di lavoro e andasse pertanto remunerato con le maggiorazioni di legge. L’attività preparatoria concernente la vestizione, nel caso esaminato, assumeva i connotati di attività eterodiretta.

Nel ricorrere per cassazione, la ditta aveva evidenziato come il contratto collettivo turismo e pubblici esercizi, non contenesse indicazioni concernenti gli indumenti ordinari.  La normativa vigente, invece, imponeva, che la vestizione avvenisse in luoghi immediatamente prospicienti gli ambienti dove sarebbero state trattate le derrate destinate ad uso alimentare; una disposizione giustificata da ragioni di igiene pubblica e non da un interesse datoriale.

Inoltre, secondo la ricorrente, dal momento che il calcolo dei tempi necessari alla vestizione rientrava nella discrezionalità del lavoratore, tale tempo non doveva essere retribuito.

La Cassazione, tuttavia, non ha ritenuto di aderire alle argomentazioni proposte, respingendo il ricorso in quanto infondato.

Gli Ermellini hanno ritenuto corretto l’orientamento del Giudice di appello secondo cui l’attività di vestizione doveva considerarsi eterodiretta. Questa, infatti, era prescritta dal datore di lavoro sia pure per ragioni di igiene e in conformità alle normative di settore. Di conseguenza, anche alla luce della giurisprudenza comunitaria, andava retribuita in quanto rientrante nell’orario di lavoro.

La Suprema Corte ha poi precisato che “l’eterodeterminazione” del tempo tuta “può derivare dall’esplicita disciplina d’impresa”;  “o risultare implicitamente dalla natura degli indumenti da indossare”; o ancora “dalla specifica funzione che essi devono assolvere nello svolgimento della prestazione”.

Anche le ragioni di igiene d’igiene imposte dalla prestazione da svolgere possono, dunque, determinare un obbligo di indossare la divisa sul luogo di lavoro. Nel caso di specie, l’attività di vestizione risultava assoggettata alle prescrizioni datoriali, in ordine a luogo e modalità; era inoltre strettamente funzionale all’espletamento della prestazione lavorativa in conformità delle previsioni di legge in tema di igiene pubblica.

 

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